Recensione di “La cresta dell’onda” di Thomas Pynchon
Il complotto contro l’America è un prodotto squisitamente americano; è l’aggravarsi inconsapevole del processo di involuzione di un organismo sociale la cui idea di libertà è impallidita nell’utilitaristico concetto di merce; è la contraddizione (inesplosa ma niente affatto dormiente) tra il diritto rivendicato all’autodeterminazione di ciascuno e di tutti e l’asservimento – che di momento in momento si fa più forte – di tutti e di ciascuno alle logiche del mercato, del profitto, all’imperativo categorico dell’assurdo che pretende una crescita continua all’interno di un mondo dalle risorse tutt’altro che infinite; è la menzogna planetaria di internet, luogo-non luogo dell’utopia finalmente realizzata, della “democrazia compiuta” imperante, dell’“informazione libera” diffusa a piene mani, della “verità” alla portata di tutti fondata sul controllo:
“Tutti connessi insieme, impossibile che si perda qualcuno, non può succedere. Fai il passo seguente, connettili ai telefoni cellulari, e avrai un Web completo di sorveglianza cui non si potrà sfuggire […]. Spaventoso. Quello che sognano al Pentagono, legge marziale che si allarga a tutto il mondo”. L’America non è mai stata innocente, scrive James Ellroy al principio di American Tabloid (1995), primo, splendido capitolo della sua “Trilogia Americana”; diciotto anni più tardi, la sua affermazione, trasformata, nel geniale “laboratorio letterario” di Thomas Pynchon, nella grottesca maschera comica di se stessa ma ribadita nella sua essenziale esattezza, nella sua inconfutabilità, è il fondamento del magnifico e vorticoso romanzo La cresta dell’onda, ennesimo capolavoro (d’ironia e lucidità) del grande scrittore statunitense. Nel raccontare l’odissea della sua protagonista, l’analista antifrode Maxine Tarnow (siamo nel 2001, nei mesi che precedono, e poi in quelli che seguono, la tragedia dell’11 settembre, cui l’autore non dedica che una manciata di pagine, con ciò sottolineando quanto il crollo delle Torri Gemelle sia stato forse il momento più terribile, ma non certo il più oscuro e nemmeno il peggiore di un folle gioco al massacro nel quale gli Stati Uniti non sono che uno degli attori in campo, un tassello tra gli altri), Pynchon, attento a non prendersi mai troppo sul serio, a “ubriacare” di irresistibile comicità ogni ragionamento, ogni tesi, ogni conclusione cui, attraverso i suoi personaggi, giunge, indossa i panni che gli sono più congeniali, quelli del narratore onnisciente, del deus ex machina, la cui osservazione dei fatti è allo stesso tempo divertita e disperata. Così, egli ambienta la sua storia nel momento in cui il miracolo della “new economy” si fa illusione, tra le macerie delle migliaia di “start up” .com lanciate sul mercato e fallite (e dove tuttavia, per chiunque abbia un po’ di fantasia, sappia ignorare gli scrupoli e non manchi di sano spirito imprenditoriale occasioni e opportunità non mancano di certo), per intrecciare inestricabilmente virtuale e reale.
Ingaggiata da un amico regista (ed ecco che torna la dicotomia tra ciò che si vede e ciò che è), Maxine si trova a indagare su una società di sicurezza informatica (dall’improbabile nome di hashslingrz.com) i cui utili, in netta controtendenza rispetto all’andamento generale del settore, continuano a crescere vertiginosamente; ed è seguendo le tracce dell’inchiesta che, quasi senza rendersene conto, precipita in un abisso che altro non è se il presente che tutti conosciamo incontrato però al principio di un giorno qualsiasi, poco dopo essersi appena alzato dal letto, non ancora truccato a dovere per presentarsi ai miliardi di esseri umani che lo aspettano davanti allo schermo di un computer o in mezzo a una strada. E il presente (e con esso forse il passato, e quasi certamente il futuro) orfano di belletto ha l’aspetto ripugnante dell’infantile nazismo degli Stati Uniti, impegnati a cercare di governare il mondo imponendo il proprio ordine attraverso mirate azioni “politico-militari” piuttosto che risoluti a conquistarlo direttamente; ha il volto sfigurato d’odio di un terrorismo che uccide più per compulsione che in obbedienza a un disegno che se anche esistesse nessuno sa con certezza chi lo ha architettato né a quale scopo; ha il sorriso sfuggente e maligno di internet, terra vergine dove è davvero possibile solo e soltanto ciò che alcuni vogliono e dove l’alternativa a quel che è, la “seconda vita” da costruire assecondando solo i propri desideri garantita da un software sperimentale (Departure, presto modificato dai suoi creatori in Deep Archer, corsia preferenziale verso il buco nero del web sommerso), si rivela un vicolo cieco e non un salvifica via di fuga.
Quel che si vede prima del trucco, dunque, non è che una teoria di devastazione, un labirinto d’orrori dal quale è quasi impossibile uscire, un luna park scintillante d’angoscia al cui ipnotico canto di sirena fatto di luci, suoni e colori non si riesce a resistere, ma che potrà durare soltanto finché qualcuno non si deciderà a staccare la corrente.
Eccovi l’incipit del romanzo. L’eccellente lavoro di traduzione, per Einaudi, è, ancora una volta, di Massimo Bocchiola. Buona lettura.
È il primo giorno di primavera del 2001 e Maxine Tarnow, anche se qualcuno nel database l’ha ancora sotto Loeffler, sta accompagnando a scuola i suoi figli. Sí, forse non hanno più l’età per essere accompagnati, forse è Maxine che ancora non vuole rinunciare, sono solo un paio di isolati, e sulla strada per andare al lavoro, e poi le piace. Quindi?