Recensione di “Chi ha paura di Virginia Woolf?” di Edward Albee
«A sei anni decisi di diventare uno scrittore, e cominciai con delle poesie. Pensavo che scrivere fosse molto più semplice che lavorare – ora so che è il contrario. A ventisei anni mi accorsi che i miei versi erano sì migliorati, ma non tanto da potermi considerare un poeta. A quindici avevo già scritto il mio primo romanzo, a diciassette il secondo: credo che si possano considerare i due peggiori che siano mai stati prodotti in America.
Essendo uno di quegli autori che io scherzosamente chiamo creativi, non credo che potrei mai darmi alla saggistica. Intanto ero arrivato alla soglia dei trent’anni ed ero ancora ben deciso a diventare uno scrittore, così non mi rimaneva altro che provare con il teatro. Forse il fatto che la mia famiglia mi avesse mandato a teatro fin da quando avevo cinque anni, ha avuto il suo peso in questa decisione, come pure il fatto di aver cominciato a leggere testi teatrali a dieci, undici anni».
Con queste parole, parte di un’intervista ad Alan Downer riportata nella nota introduttiva al volume Chi ha paura di Virginia Woolf? edito da Einaudi (traduzione di Ettore Capriolo), Edward Albee si definisce “per negazione”, in parte considerando il suo ruolo e la sua opera di drammaturgo come una sorta di destino già scritto (abbandonato immediatamente dopo la nascita, fu adottato dal ricchissimo Reed Albee, erede di una catena di teatri di rivista e in quell’ambiente visse fin dalla più tenera età) e in parte, per merito soprattutto di un’autoironia preziosa quanto il senso di realtà che accompagna, giudicando il suo approdo alla scrittura per il teatro una sorta di “ultima spiaggia”, la sola alternativa possibile al naufragio del suo sogno più grande.
Tuttavia, da questo “estremo tentativo”, da questo scrivere quasi disperato, che sembra somigliare più a una scommessa, a un azzardo, che all’ostinata fedeltà a una vocazione – di cui Chi ha paura di Virginia Woolf? è il frutto più noto e amato nonché uno dei vertici della sua produzione – Albee guarda alla realtà (e all’indicibile verità che contiene) con terrificante chiarezza e implacabile lucidità. Il teatro di Albee, segnato da una scrittura incisiva, potente, carica allo stesso modo di angoscia, paura e violenza, una scrittura in qualche misterioso modo cosciente di sé e della propria forza, che rifiuta qualsiasi mediazione, qualsiasi compromesso, e reagisce all’ipocrisia del conflitto negato a ogni costo con rabbiose urla di sincerità, con l’aperta proclamazione di ciò che deve essere detto, è rivelazione, smascheramento, resa dei conti; il sottosuolo delle emozioni, dei segreti, dei tormenti, dei pensieri più oscuri e terribili, che si cullano e al tempo stesso si guardano con orrore, tutto ciò che il tranquillo e benpensante universo borghese americano messo in scena da Edward Albee si preoccupa di tenere celato, inevitabilmente deflagra, trasformando nel suo opposto (un opposto per il quale non ci sono parole salvifiche ma soltanto il veleno delle recriminazioni e delle vendette) quel che fino a un momento prima si credeva reale.
Braccata, conquistata e infine esposta, gettata nuda tra le fameliche (e per nulla innocenti) braccia del mondo, la verità non è, per Albee, un bene in sé, qualcosa cui tendere in virtù di un qualsivoglia imperativo morale; si tratta piuttosto di un bisogno, di una necessità da soddisfare, di una “valvola di sicurezza” familiare e sociale da azionare in determinate circostanze. Ogni costruzione dell’uomo, ci dice Albee, si fonda sulla menzogna, sull’inganno, sulla prevaricazione; perché questo stato di cose possa perpetuarsi, è indispensabile – esattamente come lo è per un corpo nutrirsi, riposare e sfogare in qualche modo la propria energia – che di tanto in tanto l’artificiosità di un sistema cui nessuno intende davvero sottrarsi venga dichiarata, che una tempesta spazzi via l’orizzonte cui siamo abituati, che si crei l’illusione di un cambio di rotta decisivo, definitivo.
In un impianto da tragedia classica, dunque, Albee mette in scena l’atroce spettacolo di una rivoluzione mancata, la sterile indignazione di anime prive di tensione verso la libertà, spogliate della dignità. Ed è in questa dimensione angosciosamente terrena, “impura”, che la verità, strumento non di emancipazione e di salvezza ma al contrario arma destinata alla tortura, all’umiliazione, si fa pietra angolare dell’oscuro dramma familiare narrato in Chi ha paura di Virginia Woolf?
Nei tre atti della pièce di Albee, ambientati nella sonnolenta quiete di un’università di provincia, due coppie, una di mezza età formata da un professore di storia e da sua moglie, figlia del preside dell’ateneo, una più giovane, composta da un professore di biologia e dalla consorte, trascorrono assieme una notte nel corso della quale le ombre che gravano sulle esistenze di ciascuno saranno svelate con cinica brutalità al solo di scopo di fare del male, rovinare, distruggere. L’ansia di sapere, che come una malattia colpisce, uno alla volta, tutti i protagonisti di Chi ha paura di Virginia Woolf?, si snoda in un folle girotondo di derisioni e assalti, brucia in una febbre d’annientamento (proprio e altrui) talmente intensa da lasciare sbigottiti.
Brandita come fosse un pugnale, la verità fiammeggia nei ripetuti j’accuse che si rincorrono ora dopo ora come una muta di cani feroci, cancella, nella sua famelica sete di sangue, ogni senso del limite, esaurisce ogni energia, ogni respiro, e quando anche l’ultimo spasmo dei muscoli si è spento e l’ultima parola è stata pronunciata, quel che resta altro non è se non la prigione dell’essere vivi, la condanna all’ergastolo dell’esistere, così terribile da non poter essere sopportata se non attraverso la costruzione di illusioni tanto elaborate quanto fragili. Quelle illusioni che la verità al suo passaggio inutilmente mostra e illumina, perché tutti già conoscono e accettano.
Eccovi, invece dell’incipit del dramma, la parte conclusiva della già citata nota introduttiva all’opera, scritta da Paolo Collo. Buona lettura.
Già nei precedenti atti unici Albee aveva mostrato l’altra faccia dell’american dream, fatta di solitudine, di angoscia, di violenza. Ora, in Chi ha paura di Virginia Woolf?, mette in mostra, scarnifica, il volto pulito, per bene, «normale», dei rapporti di coppia. Grazie alla «normalità» dei personaggi, scelti in un ambito ben definito ma non per questo meno emblematici – professori, mogli, presidi, studenti -, l’attenzione si concentra sulla normalità dell’angoscia, dell’odio, della trasgressione, della violenza […]. Il salotto dei Washington – questo il non casuale cognome di George e Martha – diviene così il centro d’una casa stregata, nella quale una specie di maleficio tiene soggiogati i protagonisti.