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Un muto esorcismo

Recensione di “Vergogna” di John Maxwell Coetzee

John Maxwell Coetzee, Vergogna, Einaudi
John Maxwell Coetzee, Vergogna, Einaudi

Forse non c’è un tempo per nascere e uno per morire, né uno per uccidere e uno per guarire. Forse non esistono, nell’opaca dimensione degli uomini, nella loro patetica debolezza travestita d’impeto, né il tempo per amare né quello per odiare, e all’orizzonte impallidiscono fino a svanire tanto il tempo per la guerra quanto quello per la pace.


Forse, semplicemente, non è possibile che si dia un tempo per l’uomo perché il suo essere nel tempo, il suo vivere, il suo respirare, e nutrirsi, e resistere, non sono che una costante, furente ricerca di un adattamento impossibile. Nell’uniforme incedere del tempo è l’essere umano la sola variabile impazzita; nell’orbita eccentrica delle sue convinzioni, delle pulsioni, degli appetiti, delle scelte, egli sconvolge ogni equilibrio e, simile a un capriccioso dio fanciullo, si sforza di piegare alla sua volontà sterile tutto ciò che lo circonda e silenzioso soffre il suo odioso arbitrio.

Così, l’unico tempo che davvero sembra appartenere all’uomo è il tempo del caos, della violenza, dell’esasperata solitudine, della spietata guerra fratricida combattuta all’ombra di ideali e bandiere che hanno tutti i nomi e nessun nome. In questo tempo, in questo continuo presente che come erba malata cresce nelle disciplinate geometrie cittadine, nell’austera eleganza dei campus universitari, per poi esplodere, con la veemenza che è propria della natura, negli spazi immensi di un Sudafrica selvaggio dove ogni giorno ha l’affanno della sopravvivenza, John Maxwell Coetzee ambienta Vergogna, uno dei suoi romanzi più famosi, vincitore del Booker Prize.

“Racconto di specchi”, di prospettive convergenti che in un attimo divengono poli opposti, Vergogna ha nei suoi protagonisti principali, il professore universitario David Lurie, cinquantaduenne divorziato due volte, e sua figlia Lucy, che ha scelto la vita contadina e tra mille difficoltà gestisce un’azienda agricola – […] in fondo a una tortuosa pista sterrata a qualche chilometro dalla città: cinque ettari di terra in gran parte arabile, una pompa eolica, stalle e rimesse, e una fattoria bassa e lunga dipinta di giallo con un tetto di lamiera zincata e un portico coperto. L’aia di terra e ghiaia è delimitata da una rete metallica con ciuffi di nasturzi e gerani” – i simboli di una terra muta e sfuggente, ribollente di rabbia, sfregiata da un odio così antico che non ci si preoccupa più di comprendere ma solo di sfogare.

Il Sudafrica bianco, borghese, colto, rispettoso delle regole del vivere civile, custode severo e ipocrita di una moralità evanescente, stretta negli scomodi abiti di un linguaggio abilmente sorvegliato, che cerca scampo dal male evitando di nominarlo, affidando al silenzio, o peggio all’impeccabilità formale delle parafrasi, esorcismi e scongiuri, si incarna in tutta la sua imperfezione (e dunque in tutta la sua autenticità) nell’irrequieta infelicità di Lurie, amante appassionato di Byron e Wordsworth e nello stesso tempo così affamato d’amore carnale da sedurre una delle sue studentesse, dando vita a un rapporto denso d’ombre che quasi subito deraglia nel dolore, nella colpa, nell’incomprensione, in una generosità d’azioni e sentimenti goffamente offerti come dono riparatore e infine sprofonda nell’abisso di una denuncia per molestie sessuali che porta all’espulsione del professore dall’università.

Ma quel che Lurie, con il suo comportamento sregolato e spavaldo, con la sua piena accettazione della condanna inflitta e il parallelo, orgoglioso rifiuto di ogni pentimento (“Sono comparso davanti a una commissione ufficiale. Di fronte a questo tribunale terreno mi sono riconosciuto colpevole, con un’ammissione di colpa terrena. Tanto vi basti. Il pentimento esula dalle vostre competenze. Il pentimento appartiene a un altro mondo, a un altro universo concettuale”) incrina, non è che la superficie di un tessuto sociale battezzato nell’ingiustizia, nella ferocia, nella brutalità. Di fronte a questa atavica voce del sangue, a questa neutra legge del più forte, che colpisce Lurie nel suo affetto più caro, la figlia Lucy, derubata e violentata da tre ragazzi neri, l’uomo comprende come il suo pubblico rifiuto di norme e codici di comportamento, lungi dallaverlo reso libero, non sia stato che una flebile, inconsistente eco del destino di una terra, un destino che agli uomini non è dato comprendere ma unicamente sopportare. “Succede tutti i giorni, ogni ora, ogni minuto […] in tutti gli angoli del Paese. È un rischio possedere delle cose: un’auto, un paio di scarpe, un pacchetto di sigarette. Non ce ne sono abbastanza per tutti, non ci sono auto, scarpe e sigarette a sufficienza. Troppa gente, troppo poche cose. Quel che c’è deve circolare, in modo che tutti abbiano la possibilità di essere felici per un giorno. Questa è la teoria: attieniti alla teoria e cerca di trarne il conforto che puoi. Non si tratta di cattiveria umana, solo di un vasto apparato circolatorio, nel cui ambito pietà e terrore sono irrilevanti”.

La violenza “istituzionale” del professor Lurie, consumata in quei luoghi senza nome dello spirito e del corpo dove tutto si confonde e sopraffazione e amore dividono lo stesso letto come innamorati incoscienti, diviene, nella deformazione grottesca dello stupro subito da Lucy (e da lei accettato come inevitabile prezzo da pagare per vivere, da bianca, nel cuore stesso di un Paese di cui è figlia illegittima), denuncia di un’esistenza costruita nella finzione, nella farsa, nella commedia, cullata nella bellezza perfetta ma intangibile della letteratura e della poesia, che omaggia la natura senza conoscerla, e nella soddisfazione immediata di amplessi sempre nuovi, che durano il battito d’ali di un desiderio e poi educatamente svaniscono, come il sonno al giungere dell’alba.

Attraverso l’odissea di Lucy, che l’autore racconta con impressionante durezza, riducendo la lingua alla sua essenzialità espressiva, dandole concretezza, trasformandola nella realtà stessa che descrive, sacrificando alla sincerità il suo intrinseco splendore, Lurie, padre e uomo, rinasce: è sofferenza il liquido amniotico che circonda il suo nuovo corpo e la sua anima; sono incomprensione, e terrore, e rabbia, e smarrimento il suo nutrimento; è umiliazione l’eredità che lo attende. Ed è questo, nient’altro che questo quel che può dividere con Lucy (“Bisogna saper ricominciare dal fondo. Senza niente. Senza una carta da giocare, senza un’arma, senza una proprietà, senza un diritto, senza dignità”), perché non c’è, non c’è stato, mai, un tempo per l’uomo, un tempo che fosse la sua misura permettendogli di essere, a sua volta, misura di tutto il resto.

Eccovi l’incipit del romanzo. La traduzione, per Einaudi, è di Gaspare Bona. Buona lettura.

Per un uomo della sua età, cinquantadue anni, divorziato, gli sembra di avere risolto il problema del sesso piuttosto bene. Il giovedì pomeriggio va in macchina a Green Point. Alle due in punto preme il campanello all’ingresso di Windsor Mansions, dice il suo nome ed entra. Sulla porta del n. 113 lo aspetta Soraya.

2 commenti su “Un muto esorcismo”

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