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Il gioco delle pulci e la poesia

recensione William Gaddis, L'agonia dell'agape, Alet Edizioni
William Gaddis, L’agonia dell’agape, Alet Edizioni

Un saggio trasformato in un romanzo; il lavoro di un’intera vita, in attesa di essere sistematizzato e concluso, divenuto, nella piena coincidenza tra personaggio e autore, prosa, e stile, e musicalità della lingua, e armonia del periodo. E l’arte, privilegiato oggetto di riflessione, che perde di significato e svanisce in un tempo nel quale “ciascuno è artista di se stesso”, in un tempo in cui, poiché ogni cosa è riproducibile, niente che sia davvero autentico è più necessario.

L’arte, dunque, categoria dello spirito in via di estinzione, che si riflette nel corpo martoriato di uno scrittore ossessionato dal suo lavoro, che frammentata occhieggia da decine, centinaia di appunti presi, da migliaia di libri accatastati in ogni dove in una stanza che è insieme camera d’ospedale e studio privato, che sussurra nelle citazioni di poeti, scienziati, romanzieri, musicisti e filosofi, che come un rimorso tortura nel cortocircuito di un pensiero nuovo eppure in qualche modo già pensato, già consegnato alla storia, forse addirittura già dimenticato. L’arte, la scintilla creativa dalla quale si origina, la sua produzione in serie assicurata dalla meccanizzazione dei processi, dall’innovazione tecnologica, la sua trasformazione in merce, in bene di consumo universale, la sua oscena democratizzazione – “[…] e allora ecco Bentham secondo cui ‘a pari quantità di piacere arrecato, il gioco delle pulci vale tanto quanto la poesia’, visto la parola ‘quantità’? La quantità del piacere non la qualità, è questo il punto, e poi arrivano le macchine digitali, le macchine che Norbert Wiener chiamava ‘tutto o niente’, una macchina che conta dà origine al sistema binario e con esso al computer, per cui Wiener ci racconta di un geniale ingegnere americano che è andato ad acquistarsi un pianoforte automatico assai costoso. Il gioco delle pulci o la poesia, non gliene frega un accidente della musica però lo affascina il complicato meccanismo che la produce, ecco l’America com’era, cos’era la meccanizzazione, cos’era la democrazia e la deificazione della democrazia cent’anni fa” – è il centro di gravità de L’agonia dell’agape, ultima opera di William Gaddis (in Italia pubblicata da Alet Edizioni, tradotta da Fabio Zucchella e corredata da un’ottima postfazione a cura di Joseph Tabbi). “Canto del cigno” (a parere proprio di Tabbi) del geniale scrittore americano, L’agonia dell’agape, per uno squisito paradosso letterario, risulta essere perfettamente coerente con il resto della sua opera pur nascendo in totale discontinuità con essa; il romanzo, infatti, che ha la furia distruttiva del pamphlet e la potenza del j’accuse, che trascina con sé il lettore nella tempestosa violenza di una prosa armata, scagliata sulla carta come fosse un proiettile, una prosa tambureggiante, bellicosa, portatrice di consapevolezza e verità e responsabile del proprio compito, in origine doveva essere tutt’altro, e cioè (è ancora Tabbi a spiegare) “un’esauriente storia sociale del piano meccanico in America, i cui lineamenti possono essere rintracciati nelle migliaia di appunti, ritagli, documenti di lavoro, abbozzi e frammenti che Gaddis lasciò alla sua morte”.

Di questo progetto, mai portato a termine, Gaddis ha sparso tracce negli altri suoi romanzi (in special modo nei suoi capolavori JR e Le perizie); seminando indizi, egli ha lasciato trasparire la storia che sta a fondamento di tutte le altre storie da lui narrate, “una cronologia che parte dall’invenzione del piano meccanico nel 1876 e arriva al 1929, ‘quando crollarono il mondo del piano meccanico e ogni altra cosa’”; celando, o per dir con maggior esattezza mostrando solo in parte, nell’irresistibile complessità delle sue riflessioni sul denaro (JR) e sul rapporto tra finzione e realtà, decisamente sbilanciato a favore della prima (Le perizie), il tema dal quale tutti gli altri temi si originano (“La teoria del caos come mezzo per arrivare all’ordine”), William Gaddis prepara la strada proprio a L’agonia dell’agape, vissuto come l’atto conclusivo di un percorso conoscitivo e artistico che coincide con la vita stessa.

Così, ecco che nelle brevi, dense, incalzanti pagine di questo romanzo qualsiasi mediazione viene annullata in quanto totalmente inutile. L’identità tra scrittore e personaggio rende superflua ogni parentesi descrittiva (ciò che dobbiamo sapere della voce narrante lo sappiamo immediatamente; si tratta di uno scrittore non più giovane, malato, con un unico pensiero in  mente, terminare il proprio saggio), così come la realtà immediata, il qui e ora, l’esigenza dell’uomo Gaddis che è la medesima esigenza del Gaddis riprodotto sulla carta, rende superflua la ricerca e la costruzione di altri personaggi (tutti sostituiti da figure reali; il già citato Bentham, e poi Benjamin, Freud, Tolstoj, Platone, Kierkegaard, Huizinga, Flaubert, Melville, Jung, Shakespeare, Nietszche, Dodds, Bernhard, Blake, Dostoevskij …). Il puro materiale romanzesco, dunque, svanisce dinanzi a ciò che è essenzialmente romanzo, alla novella che ha sostituito il saggio per poterlo raccontare, all’invenzione e allo stile che hanno preso il posto della sistematicità per poterle regalare espressione, per riuscire a darle voce. Squisito paradosso letterario, si diceva; il paradosso cercato da uno scrittore dotato di un talento unico per non arrendersi all’indicibile, il paradosso voluto da uno degli autori più significativi del Novecento, capace di portare il romanzo oltre se stesso, di disegnare una nuova geografia per la parola scritta: “Quella era la Giovinezza con la sua spericolata esuberanza, quando ogni cosa era possibile, inseguita dall’Età in cui ci troviamo adesso, e ricordiamo ciò che abbiamo distrutto, ciò che abbiamo strappato via da quell’io che poteva fare di più, e quella mia opera che è diventata il mio nemico, perché di questo io posso parlarvi, della Giovinezza che poteva fare qualunque cosa”.

Eccovi l’incipit del romanzo. Buona lettura.

No ma vedete, io devo spiegare tutto perché io non, noi non sappiamo quanto tempo è rimasto e io devo lavorare sul, devo finire questo mio libro e insomma mi sono portato tutta questa pila di libri, appunti pagine ritagli e Dio sa cosa, devo ordinare e organizzare, per il giorno in cui questa proprietà verrà divisa e gli affari e tutti gli impicci che ne derivano, nel frattempo mi tengono qui per farmi a pezzi e raschiarmi e ricucirmi e poi farla di nuovo a pezzi questa maledetta gamba guardatela, tutta piena di punti metallici come quella vecchia cotta dell’armatura giapponese in sala da pranzo, ho l’impressione che mi stiano demolendo pezzo dopo pezzo.

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