Recensione di “Candido” di Voltaire
“Nel Candide oggi non è il «racconto filosofico» che più ci incanta, non è la satira, non è il prender forma d’una morale e d’una visione del mondo: è il ritmo. Con velocità e leggerezza, un susseguirsi di disgrazie supplizi massacri corre sulla pagina, rimbalza di capitolo in capitolo, si ramifica e moltiplica senza provocare nell’emotività del lettore altro effetto che d’una vitalità esilarante e primordiale.
Se bastano le tre pagine del capitolo VIII perché Cunégonde renda conto di come, avendo avuto padre madre fratello fatti a pezzi dagli invasori, venga violentata, sventrata, curata, ridotta a far da lavandaia, fatta oggetto di contrattazione in Olanda e in Portogallo, divisa a giorni alterni tra due protettori di diversa fede, e così le capiti d’assistere all’autodafé che ha per vittime Pangloss e Candide e a ricongiungersi con quest’ultimo, meno di due pagine del capitolo IX sono sufficienti perché Candide si trovi con due cadaveri tra i piedi e Cunégonde possa esclamare: «Come hai mai fatto, tu che sei nato così mansueto, ad ammazzare in due minuti un giudeo e un prelato?» […]. La grande trovata del Voltaire umorista è quella che diventerà uno degli effetti più sicuri del cinema comico: l’accumularsi di disastri a grande velocità […]. È un gran cinematografo mondiale che Voltaire proietta nei suoi fulminei fotogrammi, è il giro del mondo in ottanta pagine, che porta Candide dalla Vestfalia natia all’Olanda, al Portogallo all’America del Sud alla Francia all’Inghilterra a Venezia in Turchia, e si dirama nei giri del mondo suppletivi dei personaggi comprimari maschi e soprattutto femmine, facili prede di pirati e mercanti di schiavi tra Gibilterra e Bosforo. Un gran cinematografo dell’attualità mondiale, soprattutto: coi villaggi massacrati nella guerra dei Sette Anni tra prussiani e francesi (i «bulgari» e gli «àvari»), il terremoto di Lisbona del 1755, gli autodafé dell’Inquisizione, i gesuiti del Paraguay che rifiutano il dominio spagnolo e portoghese, le mitiche ricchezze degli incas, e qualche flash più rapido sul protestantesimo in Olanda, sull’espandersi della sifilide, sulla pirateria mediterranea e atlantica, sulle guerre intestine del Marocco, sullo sfruttamento degli schiavi negri nella Guiana, lasciando un certo margine per le cronache letterarie e mondane parigine e per le interviste ai molti re spodestati del momento, convenuti al carnevale di Venezia. Un mondo che va a catafascio, in cui nessuno si salva in nessun posto”.
È la forma, spiega con ragione Italo Calvino nell’introduzione a Candido, o l’ottimismo, l’opera più celebre di Voltaire (1759), pubblicata da Rizzoli nella traduzione di Piero Bianconi, il tratto più moderno (o per dir con maggior esattezza più affascinante per noi moderni) di questo piccolo, immortale capolavoro; e se è senza alcun dubbio vero che si debbono alla “torrenziale agilità narrativa” di Candido, all’incessante formicolare degli spiriti animali di una prosa meravigliosamente fluida, che, quasi fosse una formula magica, sembra capace di dar forma e corso agli eventi e non limitarsi a esserne semplice cronaca, la sua irresistibile malìa e l’impressionante facilità di lettura, è altrettanto certo che al limpido splendore formale del testo, alla grazia miracolosa dello stile corrisponda un’attualità di contenuti che, lungi dall’esaurirsi in una puntuale lettura e interpretazione del presente, si rivela una rigorosa analisi della storia e dell’uomo (delle leggi generali della storia e dell’uomo, che della storia è il principale attore e il primo motore) condotta secondo precisi criteri filosofici.
Così, al di là della maschera buffa che l’autore fa indossare ai suoi personaggi e agli accadimenti che li vedono a un tempo protagonisti e vittime, al di là dell’aperto sberleffo rivolto al suo tempo (e dunque a tutti i tempi), quel che Voltaire propone è un’idea del mondo che vede nel metafisico ottimismo di parte della filosofia seicentesca e nel suo contrario opposti da rifiutare in egual misura e per un’identica ragione, perché fondati su un concetto di finalità che, quand’anche si volesse supporre esistente e operante, resterebbe incomprensibile al limitato intelletto umano. Considerare il disordinato alternarsi di bene e male nelle cose del mondo secondo criteri capaci di svelare la direzione (l’unica e la sola) lungo la quale siamo tutti in cammino non è altro che illusione o sogno; in questo senso, dunque, la filosofia, incarnata tanto dal buffo Pangloss, il cui nome si potrebbe tradurre in “parolaio”, precettore di Candido, quanto dal cupo Martin, è il contrario di ciò che dovrebbe essere, è un girovagare dei sentimenti e non dell’intelletto, un predominare delle passioni e non del ragionamento, un inseguir menzogne certe a scapito della verità, non importa quanto essa sia fragile.
E se il mondo, come ci dice Voltaire, non è altro che una confusione nella quale siamo gettati, quale altro compito può toccarci se non quello di costruire un ordine che sia alla nostra portata e alla nostra misura? Tralasciamo dunque il donchisciottesco compito di fornire di ciò che siamo e di quel che ci circonda la spiegazione ultima e carichiamoci sulle spalle l’agrodolce responsabilità di vivere: “Se questa giostra di disastri”, scrive ancora Calvino, “può essere contemplata col sorriso a fior di labbra è perché la vita umana è rapida e limitata; c’è sempre qualcuno che può dirsi più sfortunato di noi; e chi putacaso non avesse nulla di cui lagnarsi, disponesse di tutto ciò che la vita può dare di buono, finirebbe come il signor Pococurante senatore veneziano, che se ne sta sempre con la puzza sotto al naso, a trovar difetti dove non dovrebbe trovare che motivi di soddisfazione e ammirazione”.
Eccovi l’incipit dell’opera. Buona lettura a tutti.
C’era in Vestfalia, nel castello del barone di Thunder-ten-tronckh, un giovinetto che la natura aveva dotato di costumi assai mansueti. Gli si leggeva l’anima sul volto. Aveva il giudizio abbastanza retto, con uno spirito grandemente semplice; perciò credo lo chiamavano Candide.