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Chi ha fame ha diritto; chi vota regna

Recensione di “I miserabili” di Victor Hugo

Victor Hugo, I miserabili, Newton Compton
Victor Hugo, I miserabili, Newton Compton

“[…] il 3 aprile 1862 Les Misérables fa la sua comparsa nelle librerie parigine, al prezzo di dodici franchi, preceduto da un eccezionale battage pubblicitario. Nel pomeriggio dello stesso giorno ne sono stati venduti – letteralmente contesi dai lettori – quasi quattromila esemplari. Si ricorre a riffe e a collette pur di procurarsi una copia; si organizzano giochi a premi, estrazioni a sorte, rappresentazioni di marionette e ombre cinesi, tableaux vivants, pantomime. Jean Valjean, Fantine, Cosette, Marius, Javert, Gavroche, i Thénardier, monsignor Bievenue sembrano uscire di prepotenza dalle pagine del libro facendosi di carne e di sangue.

Un tale successo […] per un romanzo giudicato «rivoluzionario», che Lamartine definisce «pericolosissimo», sembra vanificare perfino i disegni della «liberticida» […] legge Riancey […], che imponendo una tassa di cinque centesimi su ogni copia di giornale contenente l’appendice l’aveva resa, in pratica, economicamente insostenibile. Anche per questo, molto probabilmente, Les Misérables conosce subito una dignità editoriale «da libreria», cosa che, tra l’altro, gli gioverà non poco nella considerazione della haute letteraria. Baudelaire, ammirato e commosso, lo saluta come «un libro di carità»; George Sand […] lo definisce, per poi contraddirsi, «immondo»; Flaubert lo trova «volgare»: i lettori ne decretano il trionfo”.

Opera monumentale, romanzo splendido e terribile, architettura retorica magnifica e sublime capace di sacrificare all’appassionato elogio del vero, del buono, del giusto e del bello ogni verosimiglianza, I miserabili, il cui straordinario successo editoriale Riccardo Reim ben riassume nell’introduzione al volume pubblicato da Newton Compton (nella traduzione di E. De Mattia) è allo stesso tempo un labirinto intricatissimo e oscuro e un orizzonte vibrante di luce affacciato sull’infinito.

Lo sguardo del suo autore, che di tutto ciò che narra è allo stesso tempo cronista e testimone, storico e filosofo, sembra voler spaziare ovunque, indagare, con l’attenzione esasperata e minuziosa dell’investigatore unita alla capacità d’astrazione dello scienziato, del teorico, il destino degli ultimi e le sorti del mondo, la miseria del singolo e il trionfante procedere della storia verso l’avvenire, la giustizia sociale e la libertà, gli inciampi degli uomini e i tranelli in cui cadono le nazioni, gli aspri rivolgimenti delle anime e delle coscienze e le rivoluzioni dei popoli. Voce del dolore, della sofferenza, del sacrificio, del riscatto, della sorte cieca e matrigna come dell’imperscrutabile e tuttavia perfetta e infallibile provvidenza divina, Victor Hugo intreccia, nel suo travolgente affresco letterario, il minuscolo e l’immenso, l’ingiustizia atroce (e nonostante ciò il più delle volte ignorata) causata dalla vile oppressione del più forte ai danni del più debole, e il sorgere e il tramontare di imperi, il crollare nella polvere e nell’ignominia di secolari dinastie di principi e re, la notte di Napoleone a Waterloo e la discesa agli inferi del potatore Jean Valjean, divenuto ladro per necessità e tramutato in galeotto, in abietto rifiuto della società da una giustizia miope e sorda, del tutto incapace di comprensione e pietà.

Timoniere coraggioso, a tratti perfino spavaldo, di una retorica nobile e fiammeggiante, Victor Hugo elegge l’assoluto a propria stella polare letteraria e in tal modo si fa scultore della forma, riformatore dello stile, artista bizzarramente geniale dell’architettura narrativa; il suo narrare, stupefacente lavoro d’alchimista, trasforma il romanzo in una torrenziale congestione di fatti, in un crocevia di eventi drammatici che sembrano avere in sé, o meglio negli intangibili decreti di Dio, la propria ragione. In questa fittissima trama, i personaggi, ridotti a meri simboli di virtù e vizio e proprio per questo, agli occhi del lettore, trasfigurati in caratteri indimenticabili, eroici, sovrumani (nell’abiezione come nell’estasi del sacrificio), sono strumenti di una volontà trascendente, tasselli della “pietosa intelligenza del caso” grazie ai quali, seppure attraverso spaventose “vie della croce”, il bene finisce per trionfare.

Non c’è dunque contraddizione alcuna tra l’estrema semplicità dell’intreccio (riassumibile negli sforzi del protagonista Jean Valjean, forzato senza colpa, per redimersi) e la complessità del contesto storico, politico e sociale nel quale Victor Hugo fa respirare il romanzo; al contrario, l’una si completa naturalmente nell’altra. Il particolare trova la propria ragione e la propria verità nel generale, la sete di giustizia dell’uomo si riversa, allo stesso modo in cui un fiume giunge al mare, in quella del popolo e lì si fa rivoluzione, l’affrancamento dalla povertà e dall’ignoranza di uno non è che il riflesso del progresso di tutti, l’eco gioiosa dei passi del mondo, inarrestabile nella sua marcia verso il domani.

Eccovi l’incipit del romanzo. Buona lettura.

Nel 1815, monsignor Charles-François-Bienvenu Myriel era vescovo di Digne. Era un vecchio di circa settantacinque anni; occupava la sede di Digne dal 1806.

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