Recensione de “La macchia umana” di Philip Roth
Il comportamento appropriato nella tragedia classica. Ecco il titolo di un corso il cui argomento verrebbe esaurito prima ancora di cominciare a trattarlo. Perché se appropriato è “la parola in codice corrente per frenare ogni deviazione dalle sane linee di condotta e mettere così ognuno «a suo agio»”, se ciò che è appropriato risulta essere in ogni occasione ciò che è opportuno, conveniente e forse in qualche caso, per puro colpo di fortuna, perfino giusto (o se non proprio giusto, non del tutto sbagliato, almeno), come può esserci spazio per qualsiasi altro comportamento?
Che senso può avere una scelta diversa da quella appropriata? Perché decidersi per l’errore se non perché si ha l’intenzione manifesta di scandalizzare, di ignorare le regole, di sconvolgere? Appropriato, lingua universale di quel che la società, il consesso umano, non solo accetta ma promuove e benedice, koiné di un’etica pubblica e privata limpida e condivisa, è la strada lungo cui incamminarsi, il luminoso sentiero della virtù che tutti, misericordiosamente, attende e accoglie. Appropriato, dunque. Eppure, pensandoci, riflettendo, viene da chiedersi se esista qualcosa di più pericoloso e infido di questa menzognera “misura di tutte le cose”, di questo pregiudizio travestito da ordalia. Cosa, infatti, può dirsi appropriato per chi è chiamato a decidere tra quel che gli detta la propria coscienza individuale e ciò che prevede la legge cui tutti sono chiamati a obbedire? Cosa può esserci di appropriato per una Antigone? E cosa invece per Achille? Quale appropriato comportamento potrebbe salvarlo dall’ira che lo travolge? Come riuscirebbe, la tragedia greca, a insegnarci ciò che da millenni ci insegna se i suoi eroi avessero a propria disposizione il comodo rifugio di ciò che è appropriato? Se davvero bastasse comportarsi in modo appropriato per risolvere qualsiasi conflitto, o meglio per eliminarlo alla radice, potrebbe esistere Medea? Avrebbe senso leggere di Elettra? Meditare sul destino di Edipo? Ma su Edipo, Medea, Elettra, Achille noi meditiamo e ci interroghiamo da millenni, ritrovando nei loro conflitti i nostri, comprendendo, attraverso le loro traversie, le nostre, di certo più piccole, più meschine, più volgari, ma identiche nella sostanza, identiche nella misura in cui un essere umano è essenzialmente identico a un altro.
Così, è anche grazie a questi esempi che impariamo che appropriato non è che una convezione, un metro di giudizio tra i tanti, una fin troppo comoda scappatoia dalla vertigine della libertà, e dalla responsabilità che sempre ad essa si accompagna. Ed è proprio di mancanza di appropriatezza che viene accusato il professor Coleman Silk, protagonista de La macchia umana di Philip, romanzo magnifico e dolorosissimo che attraverso l’odissea di un uomo colpevole in prima istanza di aver scelto di essere libero, affronta imprescindibili dilemmi etici. Stimato professore universitario, preside di facoltà, classicista di indiscusso spessore, uomo in egual misura ammirato e temuto, Coleman Silk si ritrova oggetto di una vergognosa e strumentale campagna denigratoria; circondato da un perbenismo di facciata ridicolo e nello stesso tempo terrificante nella sua pretesa di essere preso sul serio, di essere ascoltato, Silk viene accusato di razzismo. Il suo imperdonabile sbaglio? Aver usato, nei confronti di due ragazzi di colore che non si erano mai fatti vedere a lezione, un termine che in gergo viene pronunciato in senso spregiativo. Pur essendo chiaro a tutti che l’accusa non ha ragion d’essere, e che, nel peggiore dei casi, Silk deve solo attendere che passi un po’ di tempo perché l’accanimento verso di lui esaurisca la propria spinta e si spenga senza conseguenze, egli sceglie di dimettersi. Non rinuncia a difendersi, spiega in tutte le sedi opportune quel che è già evidente di per sé, e cioè che il termine da lui usato era da intendersi solo ed esclusivamente in senso letterale, ma decide comunque di lasciare l’università. Perché lo fa? Perché, malgrado abbia ragione, preferisce che ad averla vinta siano coloro che lo accusano? Perché Silk nasconde un segreto, un segreto che nessuno conosce, un segreto per il quale non esiste alcuna scelta appropriata, un segreto che ha causato a lui e alla sua famiglia atroci sofferenze ma al quale egli è rimasto sempre fedele, proprio come lo è un eroe tragico al proprio destino, non importa quanto cupo esso sia.
Il professor Coleman Silk, sposato a una donna bianca, padre di quattro figli sani e bianchi, è un nero. Un nero dalla carnagione così pallida da sembrare bianco, un nero che un giorno, in giovanissima età, decide di essere bianco, di vivere da bianco tra i bianchi, di rifiutare il lussuoso ghetto di un’istruzione superiore assicurata da un’università prestigiosa ma frequentata esclusivamente da “gente di colore”, di voltare le spalle ai sacrifici di suo padre, all’amore di sua madre e dei suoi familiari. Coleman Silk è un nero che dice a se stesso di essere bianco, e lo dice e lo ripete con tale convinzione da costruire nella sua fantasia una famiglia bianca con la quale rimpiazzare la sua famiglia, da inventarsi una storia di questa famiglia, una storia che potrebbe benissimo essere vera se non fosse così insopportabilmente falsa.
All’ombra della sua appropriata famiglia bianca, protetto dalla benevola pigmentazione della sua pelle, Coleman Silk morde la vita ottenendo successi in serie e diventando esattamente quel che ha sempre desiderato essere: un professore. Fino al giorno in cui, per un grottesco, diabolico arabesco del caso, su di lui (un nero!) si abbatte l’accusa di razzismo; assurda certo, talmente campata in aria da non meritare la minima attenzione, ma sconvolgente per chi, più di qualsiasi altra cosa, desiderava essere bianco. Ecco perché Silk sceglie di andarsene dall’ateneo che è stato la sua casa per quasi quarant’anni, ed ecco perché, nella sua deriva, nel suo naufragio, nella sua ansia di distruggere i simulacri di regole condivise che reggono il palcoscenico di cartapesta di quel che è appropriato, egli trova in una donna che ha la metà dei suoi anni (e sulle spalle un carico di sofferenze che nessun essere umano dovrebbe essere costretto a sopportare) l’anima gemella, l’amica e l’amante, colei cui il dolore ha tolto l’obbligo della più elementare buona educazione.
Schiavi affrancati dall’infelicità, lebbrosi segnati a dito per colpe che non hanno commesso (ma consumati dai rimorsi per gli sbagli che hanno effettivamente compiuto e che solo loro sembrano conoscere), Coleman Silk e la sua amante Faunia Farley vivono sfidando il mondo, denunciandone la pavidità, il perbenismo, la disgustosa ipocrisia; cercando, nella verità della loro ribellione, un perdono irraggiungibile, un’assoluzione impossibile ma forse non del tutto immeritata.
Romanzo magnifico, sorretto da una prosa perfetta, La macchia umana è un’opera indimenticabile; una tragedia moderna che dei classici ha la radicalità, la lucidità d’analisi e la severa, terribile ineludibilità.
Eccovi l’incipit. La traduzione, per Einaudi, è di Vincenzo Mantovani. Buona lettura.
Fu nell’estate del 1998 che il mio vicino Coleman Silk – che prima di andare in pensione, due anni addietro, era stato per una ventina d’anni professore di lettere classiche al vicino Athena College, dove per altri sedici aveva fatto il preside di facoltà – mi confidò che all’età di settantun anni aveva una relazione con una donna delle pulizie trentaquattrenne che lavorava al college.
Magnifica recensione, nella quale mi ritrovo completamente.
Ti ringrazio!