Recensione di “Un destino ridicolo” di Fabrizio De André e Alessandro Gennari
La bellezza silenziosa dei luoghi, lo scintillare del mare e il respiro quieto della terra; quella città unica che è Genova, stretta attorno al segreto brulicare di vita dei suoi vicoli, affacciata sull’acqua con lo stesso innocente trasporto con il quale il volto acceso di gioia di un fanciullo accoglie una promessa mantenuta, e la vergine meraviglia della Sardegna, il suo spirito selvaggio e senza tempo, la sua voce arcaica, primordiale.
Qui, tra strade intricate come foreste e boschi fitti di alberi secolari che così tanto, e così sorprendentemente, richiamano l’occasionale dedalo dei quartieri poveri, dove “il sole del buon Dio non dà i suoi raggi”, un pugno di uomini e donne, cuori e anime gravati in egual modo dalla tragedia e dalla commedia, si affannano alla vita, artigliano i giorni con la stessa voracità con cui i neonati appena espulsi dal grembo materno bramano aria e luce. Non si tratta di eroi, né di gigli, nonostante ciò queste persone sono, forse più di tante altre, “figli di questo mondo” (e magari ne sono anche le prime vittime) ed esattamente così li disegna il suo autore, restituendoci, tra le pagine di un romanzo giallo carico d’ironia (e soprattutto d’umana pietà) caratteri protagonisti di indimenticabili canzoni.
In Un destino ridicolo, opera prima (e purtroppo anche ultima) di Fabrizio De André, scritta a quattro mani con Alessandro Gennari e pubblicata da Einaudi, l’eco delle note e delle strofe, dei versi del grande cantautore ligure risuona limpida; impossibile non immaginarsi, nelle descrizioni cariche d’amore e d’angoscia di Genova, quella “città vecchia” i cui abitanti, se giudicati con il solido buon senso borghese, dovrebbero venir condannati a “cinquemila anni più le spese”, così come riesce semplice e immediato riscoprire nella Sardegna ritratta con passione d’amante la culla di tradizioni, suoni, miserie e splendori celebrata in brani quali Zirichiltaggia, Monti di Mola, Disamistade.
E tuttavia il romanzo, che sembra insistere più del necessario sulla continuità con la musica (non a caso, nel novero dei personaggi ci sono anche un cantautore, Fabrizio, uno scrittore, Alessandro, e una ragazza che ispira a Fabrizio una indimenticabile canzone), non è soltanto lo specchio della luminosa carriera artistica di De André, né il raffinato divertimento di un intellettuale; Un destino ridicolo, infatti, è prima di tutto un ottimo romanzo, un lavoro che senza dubbio ha divertito i suoi demiurghi, ma nel quale, oltre alla spensieratezza, oltre al riso liberatorio e strafottente che finisce sempre per aver la meglio sulle lacrime, e al di là degli odiosi ostacoli della violenza e della morte, rughe e inciampi dell’ininterrotta, infinita linea della vita, si intravede uno sguardo sulle cose, un’idea del mondo, una visione dell’uomo.
De André e Gennari raccontano con accenti picareschi le avventure (che hanno l’agrodolce sapere della sconfitta, di un fallimento che, certo, genera rabbia e frustrazione, ma a conti fatti quel che scatena davvero è uno sberleffo, un ghigno, un’alzata di spalle) di un pugno di emarginati, le cui esistenze, però, traboccano d’emozioni, di sincerità, e si consumano in una purezza d’intenti che nulla ha a che vedere con ciò che è lecito e ciò che non lo è, con i confini etici tracciati dalla legge (“Di respirare la stessa aria d’un secondino non mi va/perciò ho deciso di rinunciare alla mia ora di libertà”, ecco cos’altro sembra di sentire leggendo Un destino ridicolo), danno al romanzo una struttura ordinata e un ritmo ben scandito e nello stesso tempo frenetico, sparigliano le carte mettendo in scena cupi misteri e scambi di persona, e più di tutto vestono d’una prosa esuberante e deliziosamente vanesia il loro amore disinteressato per quegli ultimi che non saranno mai primi.
Così, Un destino ridicolo finisce per rivelarsi molto più di una gradevolissima lettura; pagina dopo pagina germoglia, cresce, porta con sé il lettore in un viaggio quasi di sogno sospeso tra paradiso e inferno; e ancora una volta, seminascosta tra prostitute, lenoni, mascalzoni da quattro soldi, sequestratori improvvisati e psichiatri prestati al crimine, a emergere è quella verità pallida e indistruttibile che non si stanca di ripeterci che dai diamanti non nasce niente mentre “dal letame nascono i fior”.
Eccovi l’incipit del romanzo. Buona lettura.
Li aveva sognati tante volte, in quegli anni, senza capirne il motivo, con maschere azzurre come il cielo di luglio e mantelli di vento che gli vorticavano intorno e lo facevano ansimare nel sonno. Poi d’improvviso si faceva notte e un ragazzo più grande compariva nel cortile di un carcere ballando in controfuoco una danza scomposta; incoronato d’aglio si proclamava re dei braccianti e reggeva tra le mani una testa di cane tagliata a metà.