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La pubertà letteraria di Arturo

Recensione di “La strada per Los Angeles” di John Fante

John Fante, La strada per Los Angeles, Einaudi
John Fante, La strada per Los Angeles, Einaudi

“Non si capisce John Fante se non lo si legge alla luce dell’italoamericanità. Ma lo si capisce ancor meno se si assume l’elemento etnico come esclusivo, se si considera l’intera sua opera, ribollente distillato autobiografico, all’interno del paradigma etnico-familiare. In realtà, l’italoamericanità di John Fante […] si situa un passo avanti rispetto alla personalità della maggior parte degli altri scrittori italoamericani a lui coevi […], giacché non si risolve nella semplicità di una scelta tematica […] ma si complica e si arricchisce nel confronto con modelli letterari alti e aggiornati, e non si dà al di fuori di una ostinata, coraggiosa ricerca di stile”. La bella introduzione di Francesco Durante ai romanzi e ai racconti di Fante pubblicati da Mondadori nella collana I Meridiani si offre non tanto e non solo come chiave interpretativa del lavoro dello scrittore, quanto piuttosto come modello del suo personaggio più noto, quell’Arturo Bandini architrave della splendida, spumeggiante, dolente e beffarda saga letteraria che porta il suo nome e che è a un tempo trasparente alter ego dell’autore e sua purissima creazione letteraria. Bandini è dunque italoamericano come Fante, e come Fante più di ogni altra cosa ambisce a essere uno scrittore; al pari del suo demiurgo è tanto legato alla famiglia da esserne prigioniero, da vivere sulla propria pelle la bruciante condizione di ostaggio, ma a differenza di colui che gli ha dato vita (guardandosi, in una certa misura, allo specchio), Arturo, almeno nei suoi primi passi letterari, che egli disordinatamente muove nel folle, spassoso, incongruo ma irresistibilmente vivo La strada per Los Angeles, è un carattere in divenire, un ritratto ricco di fascino e tuttavia indefinito, è l’inespressa potenzialità di una pubertà letteraria, una maschera suscettibile di assumere qualunque forma.

Non a caso, è proprio il suo essere così manifestamente contraddittorio, così orgogliosamente irrisolto, così carico di inesistenti certezze (che puntualmente sfumano nei castelli di carta delle menzogne che il giovane Arturo sforna senza sosta, a beneficio di chiunque si degni di starlo a sentire), così impalpabile (come del resto è più che naturale essere, a soli diciotto anni di età), preda di passioni cui non si riesce a dare un nome, di entusiasmi che non si comprendono, di odi viscerali nati senza un perché, a rendere questo ragazzo, protagonista di un racconto di vita che vortica attorno a se stesso, rischia di soffocare in un corto circuito di sogni a occhi aperti che la fatica del vivere quotidiano non cessa di ridurre in frantumi senza tuttavia mai smettere di nutrirsi di speranza, collezionare desideri, tendere a un domani odoroso di primavera e riscatto, qualcosa di più di un semplice protagonista, qualcosa di diverso da un primo attore.

Così, La strada per Los Angeles, prologo e sorta di prova generale dell’intera saga, è essenzialmente Arturo Bandini, e Bandini, che in questo romanzo imperversa impacciato e goffo come un bimbo vestito con abiti troppo larghi, è a sua volta un disegno incompleto, un profilo che si indovina più che vedere direttamente, illuminato, ma soltanto a tratti e imperfettamente, dalla vulcanica esuberanza dei suoi modi, dalla sua arruffata, pomposa logorrea stordita di letture compulsive mai davvero assimilate, da una fantasia inesauribile cha ha spesso i tratti del vaneggiamento febbrile o del delirio d’onnipotenza.

A metà strada tra un Candido catapultato nella modernità e uno spavaldo monello dickensiano, Arturo Bandini, proprio come il lettore che pagina dopo pagina impara a conoscerlo, cerca se stesso nella lotta alla strisciante miseria che lo attanaglia, nel bisogno urgente, quasi spasmodico (e nel contemporaneo rifiuto) di un’occupazione che gli permetta di provvedere a se stesso e ai suoi familiari (una madre e una sorella amate e odiate in egual misura), e soprattutto nell’aspirazione a farsi scrittore e a godere dell’ammirazione di oceaniche schiere di lettori; ed è forse qui, nelle meravigliose, elettrizzanti pagine dedicate alla stesura del primo romanzo di Bandini, un’opera la cui grandezza è testimoniata da ben tre titoli – “Amore senza fine ovvero La donna amata dall’uomo ovvero Omnia vincit amor, di Artuto Gabriel Bandini. Tre titoli. Meraviglioso! Un inizio superbo. Tre titoli, così, come niente! Sbalorditivo! Incredibile! Un genio! Un genio per davvero!” – che Fante dà il meglio di sé, scaricando sulla sua creatura (e quindi in parte su se stesso) un’ironia corrosiva, una scintillante, purissima perfidia. Ecco allora che proprio nella scrittura, anzi nel suo primo, indimenticabile fallimento (perché il romanzo di Bandini, naturalmente, è un non-romanzo, lo stupido esercizio di chi pensa che scrivere non sia altro che incolonnare aggettivi), Arturo Bandini e John Fante si incontrano; e finalmente possono cominciare a riconoscersi, a prendere l’uno le misure dell’altro. Davanti a entrambi, ora, si spalanca La strada per Los Angeles. Non resta che lasciarsi tutto alle spalle e percorrerla.

Eccovi l’incipit del romanzo. La traduzione è del già citato Francesco Durante. Buona lettura.

Ho fatto un sacco di lavori al porto di Los Angeles perché la nostra famiglia era povera e mio padre era morto. Il mio primo lavoro, poco dopo la maturità, fu quello di spalatore di fossi. Di notte non potevo dormire per via del mal di schiena.

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