Recensione de “La figlia” di Clara Usón
Onora il padre e la madre. Sii devoto e leale, sempre, verso coloro che ti hanno dato la vita e che per difenderla sono pronti, in qualsiasi momento, a sacrificare le loro; sii carne, anima e sangue con le loro carni, le loro anime e il loro sangue; sii lo stesso cuore, la medesima sostanza. E continua la loro opera, perpetua il loro ricordo. Sii figlio, nell’identica misura in cui loro sono stati genitori, e così tu sia benedetto. Proprio questo fu, per il suo adorato padre, la giovane Ana Mladic, studentessa brillante, ragazza spensierata e amante della vita, spirito pulito attratto da romantiche fantasticherie, da fanciulleschi sogni di gloria; esattamente questo fu, per suo padre, l’eroe invitto Ratko Mladic, l’infallibile generale Ratko Mladic, il glorioso condottiero dell’esercito della rinata Repubblica Serba Ratko Mladic, la figlia Ana, e lo fu tenacemente, fino al giorno in cui l’illusione coltivata con cura anno dopo anno non finì in frantumi, e il semplice respirare, il meccanico aprire gli occhi su un mondo che d’improvviso era divenuto inferno, non si fece insopportabile.
E il desiderio, o meglio il bisogno di morire, irresistibile. Protagonista dello splendido romanzo La figlia, della scrittrice spagnola Clara Usón, Ana Mladic, suicida a soli 23 anni d’età, è un simbolo, il simbolo (diretto) dell’innocenza e della sua perdita e l’indiretta rappresentazione (incarnata da Ratko e dal manipolo di assassini a capo del governo serbo negli anni dei conflitti intestini che insanguinarono i Balcani) della sua volontaria rinuncia; attraverso i suoi giorni, che osserviamo in trasparenza, nella levità colma d’emozioni di una quotidianità in nulla diversa da quella di milioni di altri ventenni, nel suo chiuso, perfetto universo etico ed affettivo nel quale ogni cosa è esattamente dove dovrebbe essere e dove è impossibile confondere bene e male, dove non c’è spazio per l’ambiguità o il dubbio, ecco che poco alla volta ma inesorabilmente si fa strada la verità, la realtà dei fatti, l’orrore di una guerra civile combattuta nel nome di un nazionalismo incendiario, alimentata dalle spudorate menzogne di una propaganda folle, cui nessuno sembra in grado di resistere, una guerra che un istante dopo essere stata dichiarata si trasforma in una interminabile galleria di atrocità.
Sulle macerie di una Jugoslavia dissoltasi all’indomani della scomparsa del suo ultimo dittatore comunista, Josip Broz, da tutti conosciuto con il suo nome di battaglia, Tito, etnie che per decenni avevano vissuto fianco a fianco riscoprono la purezza della razza, dell’identità, e l’imperiosa necessità della loro difesa da qualsiasi contaminazione; così, città, villaggi, regioni che fino a un momento prima erano nient’altro che luoghi condivisi, diventano territori di conquista, aree da occupare integralmente, e dunque da liberare, altrettanto integralmente, da chi le abita senza averne diritto: esplodono i conflitti nel Balcani.
Dapprima la guerra tra serbi e croati, poi, su istigazione di un manipolo di criminali – su tutti Slobodan Milosevic e Radovan Karadzic, cui l’autrice dedica numerose pagine, frutto di anni di ricerche, dalle quali emergono con chiarezza tanto l’inconsistenza umana e politica di queste figure, poco più che malavitosi di quart’ordine affamati di potere divenuti personaggi di primo piano a livello internazionale soltanto grazie alla loro capacità di manipolare le masse e a un’assoluta mancanza di scrupoli; identici, in questo loro percorso pubblico e privato alla gran parte degli alti papaveri del regime hitleriano che soltanto pochi decenni prima avevano messo a ferro e fuoco l’Europa e il mondo – quella tra serbi e bosniaci, segnata da massacri tra i più brutali della storia recente, come quelli toccati ai cittadini di Srebrenica (in grande maggioranza musulmani) e a quelli di Sarajevo, sottoposta a un lunghissimo ed estenuante assedio nell’indifferenza pressoché totale dell’Occidente.
Di questa guerra, di tutti gli spaventosi episodi che la contraddistinguono, del chirurgico genocidio portato avanti dalle milizie serbe agli ordini del generale Ratko Mladic ai danni dei musulmani, ad Ana non giungono che flebili eco; lei sa, per bocca di suo padre, che non le mentirebbe mai, per nessuna ragione, che quella che si combatte è una battaglia di vitale importanza per il futuro della Serbia e dei serbi; lei sa che l’uomo che è suo padre, e di cui è così perdutamente innamorata e fiera, vorrebbe tanto smettere di lottare, far cessare il conflitto, ma non può farlo, perché se lo facesse, se si arrendesse, se si tirasse indietro, se voltasse le spalle alle sue responsabilità di soldato e patriota, le orde dei nemici della Serbia e dei serbi (i musulmani, i croati, i media al servizio degli altri Paesi, che non si stancano di dipingere quel che succede nella loro terra come un’aggressione perpetrata dai serbi ai danni di popolazioni inermi) spazzerebbero via ogni cosa. Sarebbe sufficiente un momento di debolezza, un attimo di esitazione, e i Serbi, che i fascisti croati alleati dei nazisti durante il secondo conflitto mondiale hanno già trucidato una volta, verrebbero sterminati. Ecco dunque che il generale Mladic combatte, senza sosta combatte, per offrire un futuro alla sua gente, per garantire la sopravvivenza della sua gente; questa è la verità, tutto il testo è menzogna, calunnia. Non c’è alcun assedio a Sarajevo, e le stragi di cui si parla in continuazione, ammesso che siano vere, sono gli stessi musulmani a farle; loro uccidono i propri fratelli, nella speranza che l’Occidente, sconvolto e indignato, intervenga, ancora una volta contro i Serbi.
Finché l’innocenza di Ana, che senza esitazione fa sue le imbarazzanti arringhe del padre, difendendolo contro tutto e tutti, nella sua orbita eccentrica verso la consapevolezza, cui il caso dà più di una mano, inciampa nella sua gemella negletta, l’innocenza cui da tempo ha voltato le spalle l’eroe Mladic, per rialzarsi diversa da come è sempre stata e ritrovarsi sola e perduta in un mondo che non riconosce più, nel quale non sembra esserci posto per lei, per il cognome che porta, per le azioni compiute dall’uomo che più aveva amato, al quale aveva affidato, senza riserve, se stessa. “I figli”, scrive l’autrice citando Oscar Wilde,“da piccoli ci amano, da adulti ci giudicano e raramente ci perdonano”; lei racconta, con accenti difficili da dimenticare e una prosa di straordinaria intensità, il naufragio di una figlia incapace, per prima cosa, di perdonare se stessa.
Eccovi l’incipit del romanzo. La traduzione, per Sellerio, è di Silvia Sichel. Buona lettura.
Mi ha colpito un video postato su YouTube, di un programma della televisione bosniaca, 60 minuta. Si apre sul primo piano di un uomo che parla in serbo al telefono, uno di quegli ingombranti Motorola che si usavano nell’ultimo decennio del ventesimo secolo. Con la mano libera (la destra) si arruffa i capelli e poi gesticola, per precisare quel che sta dicendo, anche se il suo interlocutore non lo può vedere e la sua enfasi va perduta. È robusto, con un faccione largo e il collo taurino.