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La lingua prigioniera

Recensione de “Il libro di un uomo solo” di Gao Xingjian

Gao Xingjian, Il libro di un uomo solo, Rizzoli
Gao Xingjian, Il libro di un uomo solo, Rizzoli

Lui è il tempo trascorso e incancellabile del dolore e della menzogna, della delazione continua, della paura incessante, la cui ombra era ovunque, di ciò che andava fatto e detto, effimero, passeggero come un temporale estivo e malgrado ciò ineludibile, ferreo e ultimativo come un comandamento, assoluto come un atto di fede.

Lui è un passato di tragedie individuali e collettive di cui è impossibile liberarsi, che non ammette affrancamento, è il divampare di una memoria senza requie, incapace di distinguere presente e passato. Lui è la stagione d’incubo della Rivoluzione Culturale cinese, della catastrofe maoista, dell’umiliazione dell’uomo in nome dell’idea, della dignità violata, della vita spogliata di ogni valore, di ogni senso. Tu è l’uomo di oggi, lo scrittore di successo in apparenza libero da ogni costrizione, l’intellettuale cosmopolita che ha definitivamente voltato le spalle alla propria patria, l’artista che nessuno può più obbligare a distruggere le proprie opere, a gettare nel fuoco qualsiasi traccia di un’indipendenza di pensiero, qualsiasi sospetto di eterodossia; tu è il luccicante formicolio di Hong Kong, il suo intenso profumo d’Occidente, il suo stesso esistere, che riposa sull’assenza di confini, e insieme la sua insinuante, gelida paura di perdersi, di snaturarsi, di dover rinunciare a se stessa, di pagare, alla vigilia del suo ritorno alla Cina, il prezzo più alto: la rinuncia alla propria indipendenza.

Qui, lungo l’incerta linea di demarcazione – umana, sociale, politica – che separa quel che è stato da quel che, a partire da domani, potrebbe essere (e che ci si figura, ci si immagina più come una minaccia che come una speranza), palpita con dolorosa intensità Il libro di un uomo solo, lacerante romanzo-confessione di Gao Xingjian, Premio Nobel per la Letteratura nel 2000, narrazione autobiografica veemente e dolorosa, sostenuta da una prosa di luminosa bellezza, sussurrata, intima e dolcissima nei momenti in cui si concentra sull’interiorità ferita del protagonista, sul suo inappagato bisogno d’ascolto e d’amore (e sulla sua disperata incapacità d’amare e di aprirsi), e immediatamente dopo satura di violenza, intrisa di terrore, soffocata nella sua ricchezza espressiva, nel rigoglioso fiorire di sfumature di senso, dalle secche parole d’ordine del regime, “«Compagni, io sono venuto qui da voi a nome del presidente Mao, del Comitato Centrale del Partito […]. Io sostengo i compagni che aprono il fuoco contro mostri e demoni! Attenzione, prego! Sto parlando di tutti i mostri e demoni. Tutti reazionari di ogni genere che si nascondono in ogni angolo oscuro. A tempo debito salteranno fuori, ferocissimi! Il presidente Mao ha detto a ragione: i reazionari, se non li abbatti, non lasceranno mai la presa!»”. La lingua braccata, prigioniera, la lingua ostaggio della tirannia maoista si riflette, impotente, nell’irraggiungibilità del protagonista (quel tu-lui nel quale Xingjian è scisso), il cui rifugio nell’amore fisico, nel piacere sordo della carne, non è che imperfetta, fragile anestesia a una sofferenza che ha per unica dimora il buio silenzio della riflessione e del ricordo offeso, la consapevolezza che le ferite inflitte finiscono inevitabilmente per relegare l’uomo, qualsiasi uomo, al cerchio eterno di un infruttuoso dialogo con se stesso (“[…] questa Hong Kong è un territorio estraneo per te come per lei, e quel tuo legame con lei, quel ricordo di dieci anni prima, laggiù oltre il mare, quando tu vivevi ancora in Cina…”).

La limpida eleganza espressiva di Xingjian, il suo stile così meravigliosamente fluido, trascinano il lettore in un viaggio che è a un tempo reale e metaforico; del passato carico d’ingiustizia e di morte della Rivoluzione Culturale egli restituisce, con l’esattezza e la puntualità del testimone e l’amputata serenità della vittima, clima e atmosfere, ma a quella stagione, tanto meticolosamente ricostruita, non offre il parziale conforto dello storico, dello studioso, la cui analisi non prende in considerazione, se non come mero dato statistico, il “fattore umano” degli avvenimenti, bensì sceglie di intrecciare ai fatti (nel rispetto delle esigenze narrative della forma romanzo, certo, ma anche, se non soprattutto, nel tentativo di soddisfare la propria urgenza di raccontare, di trovare il modo di dare voce a una notte etica e politica che sembra difficile persino immaginare, e che pure gli uomini con tanta facilità sembrano in grado di replicare, dimenticando ogni volta l’abisso nel quale in precedenza sono sprofondati) i patimenti delle anime e dei cuori, disegnando nel fallimento di un Paese, iscrivendo nelle colpe di una classe dirigente, la distruzione di un intero popolo, la disgregazione di ogni singolo spirito.

Romanzo indimenticabile, durissimo e struggente, nonché documento di enorme importanza, Il libro di un uomo solo è un’ulteriore conferma del purissimo talento narrativo di Xingjian, uno degli autori più significativi nel panorama letterario contemporaneo.

Eccovi l’incipit. La traduzione dal cinese, per Rizzoli, è di Alessandra C. Lavagnino. Buona lettura e buon Natale. Ci rivedremo a gennaio 2017, quinto anno di vita del blog. Grazie a tutti.

Non ha dimenticato d’aver vissuto un’altra vita, lui; il ricordo di una vecchia foto ingiallita rimasta in casa, risparmiata dal fuoco, risveglia una qualche tristezza, ma quella vita è ormai troppo lontana, come se fosse morta, scomparsa per sempre.

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