Recensione di “Il compagno segreto” di Joseph Conrad
Un racconto di formazione che ha l’angosciosa cupezza dell’incubo e il ritmo trascinante dell’avventura. Un’esplorazione, nel medesimo tempo, simbolica e reale, del sé attraverso il confronto con l’altro. Un viaggio metaforico, terribile e denso d’incognite, preludio di una traversata che consacrerà definitivamente uomo e capitano colui che la responsabilità di condurla a buon fine.
Un rapporto indefinito, mai del tutto accessibile, mai completamente cristallino, tra l’interiorità del singolo e tutto ciò che le sta di fronte, tra l’uomo e gli altri uomini, tra l’uomo e il mondo; un rapporto che è causa di tutto, dal quale ogni cosa dipende, che si ha l’urgenza di comprendere, di svelare nello stesso modo in cui si svela un mistero, e che tuttavia non si può fare altro che vivere. L’uomo, la sua enigmatica natura, e il legame che egli intreccia con i suoi simili e con quella possente, invincibile divinità che è la natura, sono al centro del travolgente racconto di Joseph Conrad intitolato Il compagno segreto, a proposito del quale Andrea Zanzotto, nella bella introduzione all’edizione dell’opera pubblicata da Rizzoli (con testo inglese a fronte e traduzione di Pietro De Logu), scrive: “Un componimento come Il compagno segreto sembrerebbe costruito a bella posta per offrire lo spunto ai più diversi ricami della critica, anzi delle più diverse metodologie critiche, e nello stesso tempo si presenta come freschezza che riesce a bilanciare il proprio impeto spontaneo entro una forma perfettamente conclusa e armonizzata.
Più che mai «componimento» è infatti questo racconto per il senso di forza unificante e di maturità che emana dal suo discorso: equamente sospeso e disteso tra un’adesione alla cronaca (alla storia) e il più sofisticato gioco simbolico, tra un’eco di autobiografia e la spinta a inventare o a riconoscere un «tipo», una situazione universali”. Sottolineano, le parole di Zanzotto, insieme all’eleganza della narrazione conradiana, alla sua costante tensione verso la bellezza formale e la squisita musicalità del periodo (mai disgiunte, tuttavia, dal preciso rigore della prosa), la straordinaria capacità di penetrazione del suo scrivere, in grado di dare anche alla più breve delle opere, al più semplice (almeno in apparenza) dei “componimenti” una non comune profondità tematica; è grazie a essa, e alla radicalità con la quale Conrad affronta l’oscurità dell’animo umano, che il suo raccontare si fa multiforme, raccogliendo il proprio materiale da più parti (l’autobiografia, la cronaca, l’indagine psicologica, le infinite suggestioni regalate dalla subdola meraviglia mare e dall’esotismo di luoghi lontani, la libertà creatrice) e dandogli una forma definita che però mantiene in vita, dando a ciascuno il giusto respiro, ogni spunto. Ecco dunque che in forza di questa quasi miracolosa estensione, o per meglio dire moltiplicazione, di senso, la brevità de Il compagno segreto, proprio come la marea al suo crescere, offre una ricchezza di contenuto che lascia quasi sgomenti; le sue poche pagine, infatti, dipingono, nel breve volgere dei giorni necessari a un capitano di prima nomina, roso dall’angoscia di essere estraneo tanto al proprio equipaggio quanto alla propria nave, con precisione estrema il compiersi di una metamorfosi, il realizzarsi di una nascita che altro non è se non una maturità esistenziale finalmente raggiunta.
Nella tensione tutta interiore del protagonista di questa storia (e sua voce narrante), ufficiale e uomo alla disperata ricerca di se stesso, nel coraggio delle sue scelte (egli decide di dare rifugio a un ufficiale, fuggito dal veliero su cui era imbarcato dopo avere ucciso un marinaio che, rifiutandosi di obbedire ai suoi ordini durante una spaventosa tempesta, aveva rischiato di far affondare la nave), nella sua lealtà alla parola data, e nello sforzo che questa fedeltà comporta, Conrad si spinge fino all’estremo limite di ciò che siamo, interrogandosi sul significato del nostro esserci nell’infinità muta e terribile della natura e del nostro continuo arrancare tra gli specchi deformanti dei nostri simili. Come scrive ancora Zanzotto al termine della sua introduzione: “Il capitano e il suo doppio, mai veramente sovrapponibili, mai veramente distaccabili nonostante le apparenze di un congedo, e ugualmente in balìa delle correnti di deriva, segnano qualche cosa che è connotativo del mondo, umano e non. Conrad sta, nel suo terreno e nel suo tempo, a testimoniare, anche con questi personaggi e con il loro rapporto, per un allarme che non avrà mai fine”.
Eccovi l’incipit. Buona lettura.
Avevo a dritta file di pali di pesca simili a un complesso misterioso di steccati di bambù semisommersi, che frazionava incomprensibilmente il regno dei pesci tropicali, e appariva cadente come se l’avesse abbandonato per sempre una tribù nomade di pescatori trasferitasi intanto all’altro capo dell’oceano; ché sin dove l’occhio giungeva non vi era traccia di abitazione umana.