Recensione di “La morte di Stalin” di Fabien Nury e Thierry Robin
Abbiamo di recente parlato dell’opera di Li Kunwu dedicata a Mao Zedong, della cui epoca l’autore stesso fu testimone oculare. Non è la stessa cosa per Fabien Nury e Thiery Robin, ma ciò non ha loro impedito di realizzare questa cronistoria a fumetti delle ore immediatamente precedenti e successive alla morte di Stalin, l’altro grande dittatore comunista del Novecento, che anzi di Mao fu ispiratore e modello.
I due autori francesi (grande sceneggiatore il primo, già premiato ad Angouleme, disegnatore di successo il secondo) prendono le mosse dalla notte del 2 marzo 1953, quando Stalin fu colpito da ictus: venne soccorso in ritardo, perché nessuno volle prendersi la responsabilità di chiamare un medico senza l’avallo del Comitato del Partito.Questo antefatto è solo il primo dei tanti momenti di (tristissimo) umorismo involontario che le varie situazioni creeranno durante la storia: i personaggi sulla scena, infatti, divisi come sono tra la paura di sbagliare, la fedeltà – vera o solo dichiarata che sia – ai grandi valori dell’ideologia e del Partito, e la convenienza personale del momento, finiscono col comportarsi in modo assurdo, eppure con totale naturalezza. Così, quando il Comitato finalmente si decide a chiamare “i migliori medici dell’Unione Sovietica” per soccorrere il “compagno segretario”, scopre che lo stesso Stalin li ha fatti deportare tutti poco tempo prima, in quanto sospettati di spionaggio.
Quando il dittatore, inanimato sul suo letto, pare avere un sussulto di vita, i medici “residui”, accorsi nel frattempo, si affannano ad avviare un trasformatore per far funzionare il defibrillatore (incompatibile con la linea elettrica sovietica, ma da usarsi comunque, in quanto “il miglior modello esistente”), ma verranno fermati dai dirigenti politici perché lo strumento “fa troppo rumore” e potrebbe disturbare il compagno segretario. Quando poi Stalin muore, organizzare i funerali diventa un vero problema, viste le migliaia di sudditi desiderosi di dare l’estremo saluto al “padre”: ne deriverà un caos ingestibile a causa degli ordini e contrordini contraddittori diffusi in merito nel Paese. C’è anche Vassia Dzugasvili, unico figlio maschio del dittatore, arrogante e viziato, e come tale incontrollabile dal Comitato. E, dunque, un problema. Ma in ultima analisi, ciò che davvero interessa i pezzi grossi del Partito è capire chi – tra Berija, Malenkov e Chruscev – dovrà succedere all’uomo d’acciaio alla guida dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche…
Un triste umorismo involontario – dicevamo – ben realizzato da Nury e a cui si adegua con maestria il pennello di Robin: non nasconde nulla delle sequenze più truci e drammatiche, anzi, ci mette perfino un po’ di splatter, ma riesce sempre ad aggiungere all’amalgama anche quel tocco di grottesco che strappa perfino un mezzo sorriso al lettore. Ed ecco perché, per ricordarci che siamo nel pieno degli anni bui di una delle peggiori dittature della storia (e, più ancora, in un momento di drammatico passaggio per milioni di persone), intervengono i colori scuri, notturni per larghi tratti, che “spianano” la tavola all’occhio, in una nebbia tra il grigio e il rossastro senza guizzi, senza eccezioni. Drammaticità e umorismo, dunque: un contrasto che riflette perfettamente l’ambiguità di una figura vista dal suo stesso popolo sia come terrorizzante entità suprema che come guida paterna. Sintesi di cui va dato gran merito agli autori di La morte di Stalin.
(Antonio Marangi)