Recensione de “L’amante” di Marguerite Duras
Una famiglia pietrificata, attraversata dall’assenza, dal silenzio, dal dolore. Sprofondata nell’abisso di follia della madre, ferita dalla tetra malvagità del fratello maggiore, umiliata dalla sua meschinità, colpita al cuore dalla prematura morte di un altro fratello e infine abbandonata dalla sorella, donna-bambina di appena quindici anni splendente nel suo corpo acerbo.
Una famiglia immobile nel tempo, ritratta quasi per caso in foto dove compaiono soltanto volti, espressioni, occhiate, accenni di sorriso; immagini anonime, che non spiegano, non rivelano, non raccontano ma al contrario celano, nascondono, fuggono dalla curiosità degli sguardi sottraendo loro particolari su particolari. Una famiglia sperduta, senza tempo né radici, estranea ai luoghi nei quali vive e agisce, lontana tanto dall’Indocina degli anni trenta del Novecento quanto dalla Francia occupata dai nazisti e poi dal Paese liberato. Una famiglia annientata dalla storia.
Cieco nucleo di esistenze sconnesse, di legami fragili, di occasioni mancate, di rimorsi e rimpianti, di memorie colme di sofferenza e di domande destinate a rimanere prive di risposta, questo tragico intreccio di vite è allo stesso tempo il centro e la periferia de L’amante, straziante racconto autobiografico della scrittrice francese Marguerite Duras. Ne è il centro, perché è dalla famiglia, descritta senza rabbia ma con una sincerità piena, assoluta, con una brama di verità che non lascia spazio alla compassione, alla pietosa scelta del silenzio, che ha origine la storia narrata – l’autrice, che è anche l’io narrante della vicenda, stringe una relazione amorosa, passionale, carnale con un ricco cinese di oltre dieci anni più grande di lei, accettando, anzi in qualche misura rivendicandolo come un titolo di merito, o quantomeno come la dimostrazione del suo essere già, malgrado la giovanissima età, una persona adulta, autonoma, indipendente, pronta ad assumersi la responsabilità delle proprie scelte, lo scandalo cui inevitabilmente dà luogo – e ne è la periferia perché dal momento in cui la ragazzina e l’uomo si incontrano ogni altra cosa è come se scomparisse, se si facesse dettaglio quasi insignificante, risultasse poco più che rumore di fondo.
È una sorta di archeologia letteraria la prosa della Duras; la sua scrittura ha in sé qualcosa che somiglia alla fatica, allo sforzo, come se il materiale necessario a raccontare si sottraesse, fuggisse, e dovesse dunque di continuo venire ripreso, raccolto, ordinato e sistemato sulla pagina. Specchi della misteriosa, enigmatica ritrosia delle foto, che segnano, come capitoli, il racconto, le pagine de L’amante, durissime, feroci, implacabili, giungono al lettore come polverose testimonianze di un passato lontanissimo e dimenticato: “Presto fu tardi nella mia vita. A diciott’anni era già troppo tardi. Tra i diciotto e i venticinque anni il mio viso ha deviato in maniera imprevista. Sono invecchiata a diciott’anni. Non so se succeda a tutti, non l’ho mai chiesto. Mi sembra di aver sentito dire che qualche volta un’accelerazione del tempo può investirci quando attraversiamo l’età giovane, la più esaltata della vita”.
Consumato d’un colpo in un rapporto che inizialmente la ragazza accetta senza neppure comprenderlo, cui si abbandona con astuzia e calcolo fidando nella propria forza, nella propria freddezza, nella distanza che sempre mette tra sé e le cose che accadono, questo passato richiamato in vita, dotato a forza di una voce che è sussurro e grida, si fa non solo chiave di lettura di tutto ciò che lo ha seguito, il subitaneo invecchiare della ragazza il baratro nevrotico della madre, gli opposti naufragi dei fratelli, l’uno fin troppo presto ghermito dalla morte (o non è stata piuttosto, la sua fine, un atto di misericordia?), l’altro condannato a una solitudine intollerabile, spaventosa, agghiacciante dal proprio egoismo, così miope e infantile da risultare addirittura comico, ma soprattutto torna a sé come autocoscienza riconoscendosi, a decenni di distanza, come puro atto d’amore, innocente delirio, piena, assoluta estasi.
Eccovi l’incipit. La traduzione, per Feltrinelli, è di Leonella Prato Caruso. Buona lettura.
Un giorno, ero già avanti negli anni, in una hall mi è venuto incontro un uomo. Si è presentato e mi ha detto: “La conosco da sempre. Tutti dicono che da giovane lei era bella, io sono venuto a dirle che la trovo più bella ora, preferisco il suo volto devastato a quello che aveva da giovane”. Penso spesso a un’immagine che solo io vedo ancora e di cui non ho mai parlato. È sempre lì, fasciata di silenzio, e mi meraviglia. La prediligo fra tutte, in lei mi riconosco, m’incanto.
L’ha ribloggato su l'eta' della innocenza.