Recensione di “Il buio fuori” di Cormac McCarthy
L’impreciso, zoppicante fluire di un tempo eterno, inconoscibile e trascendente è il respiro di una terra desolata e moribonda, è l’eco di un silenzio cupo calato come tenebra sul mondo, è il cieco labirinto di stagioni replicate la cui primordiale, purissima violenza si rovescia incessante su uomini e cose.
In questo tempo estraneo e silenzioso, sordo alla compassione, vagano naufraghe e disperate le genti, aggrappate a brandelli di sentimenti che hanno la patetica fragilità di preghiere semidimenticate, a occasioni di socialità stentate come la memoria dei vecchi, a barbagli improvvisi di pietà e amore; qui la vita è tutto e niente, è la fatica di un parto anonimo in una baracca isolata nella foresta e l’esplodere di un giovane corpo di madre che con ogni fibra chiama a sé il proprio figlio e insieme l’inspiegabile rifiuto di un padre (che della madre è anche fratello) e la sua decisione di liberarsi del neonato abbandonandolo tra i boschi.
Creatura perduta, privata del proprio dio come lo sono le immagini dei sogni al momento del risveglio, l’uomo cerca inutilmente la propria salvezza al di là di sé; negli altri uomini, che gli sono fratelli soltanto nel dolore, e nella terrificante potenza della natura, il cui respiro è immanente presenza del divino, sovrumano ordine e inaccessibile decreto. È nell’impossibile conciliazione di questi due estremi, nello sfiorarsi continuo di opposti destinati a scontrarsi come due eserciti nemici, che Cormac McCarthy, con ogni probabilità il più grande scrittore contemporaneo, articola il suo lavoro letterario, i romanzi più complessi come i racconti, tra i quali spicca, per il nitore della prosa, la sovrabbondanza descrittiva (che tuttavia non offre alcun appiglio a una reale identificazione dei luoghi in quanto la geografia di riferimento dell’autore americano, per la nuda terra così come per le persona che la abitano, ha dimensione spirituale), la ferocia e la devozione che, come aliti di speranza e abissi di malvagità per i quali non può esistere perdono, senza sosta si inseguono lungo pagine di straziante splendore, e infine per quel sussurro d’ironia che di continuo, come un sottile controcanto, risuona, a stemperare il male, o semplicemente a sottolinearne la grottesca essenzialità, Il buio fuori, in Italia pubblicato da Einaudi nella sontuosa traduzione di Raul Montanari.
“Fiaba apocalittica”, come recita il sottotitolo dell’opera, storia di una fuga e di un inseguimento, racconto di una tragedia il cui compiersi è tanto inesplicabile quanto ineluttabile, Il buio fuori narra di una donna, Rinthy, che è solo e soltanto madre, e di un uomo, Holme, che si riduce a essere null’altro che la sua colpa (e che forse avrebbe potuto fare diversamente), e di una moltitudine di altre figure, evanescenti come spettri, le cui anime malate, alla disperata ricerca di una redenzione, si sporgono gentili e condiscendenti verso i due eroi e i loro estemporanei bisogni, consapevoli, come dannati all’inferno, della sterilità dei propri sforzi. Tra Rinthy, la cui ostinata ricerca del figlio si nutre solo della certezza (che è del cuore come della carne, dei seni, che non cessano di produrre latte) che sia vivo, e Holme, sulle tracce della sorella spinto dal suo amore per lei, si stagliano, incarnazione di un “peccato originale” dell’uomo connaturato alla sua natura, al suo essere quel che è, tre assassini, la cui unica occupazione sembra essere quella di sterminare chiunque incontrino lungo il cammino.
Con questa trinità oscura, ritratto folle e osceno di una illusoria santità che nulla a che vedere con il mondo di cui dovrebbe essere responsabile (proprio come ogni creatore lo è di ciò che crea, cui dona vita), anche Rinthy e Holme dovranno fare i conti, in un crescendo d’orrore che toglie il respiro e lascia annichiliti, mentre attorno a loro, nel girotondo d’esistenze che su di essi si sono per un istante posate come trascurate carezze per poi concludersi nella sofferenza e nel sangue, riecheggiano rivolti al cielo gli inutili insegnamenti di un uomo-dio esiliato per sempre, e ogni giorno tradito dai suoi figli degeneri: “Un giorno un cieco si mise a gridare dicendo: Guardatemi, cieco e tutto il resto. E magari secondo voi dovrei amare Gesù. Be’, amico, gli faccio, credo proprio che dovresti. Lui ti ha dato gli occhi per vedere e poi te li ha tolti. Ma forse tu prima non eri un buon cristiano, e lui ha pensato che questo ti avrebbe fatto rinsavire. Più di un uomo è arrivato all’amore di Gesù camminando sui sentieri dell’afflizione. E allora cosa c’è di meglio che essere cieco? In un mondo avvolto nelle tenebre come questo, io credo che un cieco dovrebbe vederci meglio della maggior parte della gente. Credo che ci siano parecchi buoni motivi per augurare a qualcuno la cecità. La grazia di Dio non è mai una cosa comoda, per un uomo. Può accecarlo o no, con uguale facilità. Può piegarlo e farne uno storpio, E Gesù chi ha amato, amici? Gli zoppi, gli sciancati, i ciechi, ecco chi ha amato. Questi sono coloro che portano il segno della misericordia di Dio. Che sono stati toccati dal suo amore. Anche un idiota senza gambe e un vecchio rudere come te è un fiore nel giardino di Dio. Amen. Ecco cosa gli ho detto”.
Eccovi l’incipit dell’opera. Buona lettura.
Il sole del tardo pomeriggio allungò le loro ombra sul cladio e sul falasco bruciato quando spuntarono in cima al dirupo e avanzarono lentamente in fila indiana, molto in alto rispetto al fiume ma in qualche modo altrettanto inesorabili.