Vai al contenuto
Home » Recensioni » Romanzi » Sii ciò che sei

Sii ciò che sei

Recensione di “Ogni cosa è illuminata” di Jonathan Safran Foer

Jonathan Safran Foer, Ogni cosa è illuminata, Guanda
Jonathan Safran Foer, Ogni cosa è illuminata, Guanda

L’idea che siano commedia, riso e umorismo la più genuina e fedele interpretazione del dramma, che nella contagiosa leggerezza del loro codice espressivo abiti la comprensione del male, e un viaggio a ritroso nel passato compiuto con piena coscienza di tutto quel che è accaduto da allora a oggi, vestito della limpida consapevolezza dei fatti, gravato dal peso delle decisioni prese (e delle conseguenze che da quelle decisioni sono scaturite), dei rimorsi accumulati, dei rimpianti rimasti ad appassire lungo la strada e a tratti risvegliati, come tormenti, dall’ingovernabile sussulto dei ricordi.


E il lento divenire di tutte le cose, il respiro di ciò che è vivo che muta le quotidiane esistenze, che incessantemente conduce il noto verso l’ignoto, che apre le porte all’inaspettato. Così, il legame tra ciò che è stato e ciò che è non è un correre lungo i binari di una strada definita, non è semplicemente ricostruire l’immutabile, illuminare la morta eternità delle cose trascorse, bensì uno zigzagare del pensiero e della fantasia; è l’incedere ubriaco dei sentimenti, l’anarchico vagabondare di un frammento di memoria che nel suo effimero splendore ne illumina un altro, il quale a sua volta ammicca a un terzo, che ancora svela il successivo, finché quest’abbozzato filo d’Arianna non diviene percorso, e il percorso trama del labirinto.

Tutto questo incontrarsi di sguardi, pensieri ed emozioni è materia dell’intreccio romanzesco di Ogni cosa è illuminata, prezioso lavoro d’esordio di Jonathan Safran Foer, che con lievissimo tocco d’uomo e d’artista sfiora le tragedie del nostro passato recente per ricondurle al proprio tempo e al proprio essere; nel suo costruire un romanzo “a tre voci” a un tempo buffo e cupissimo, egli non solo confonde di proposito ogni prospettiva, vestendo i panni del narratore e subito dopo quelli dello spettatore di fatti cui è quasi completamente estraneo, e poi ancora quelli di un personaggio tra i tanti, protagonista di un’avventura tanto improbabile quanto commovente (e impossibile da dimenticare), ma si misura (costringendo anche il lettore a farlo) con l’onnipotenza del caso, primo motore immobile del mondo.

Dagli orrori del nazismo a ritroso fino a un “principio del mondo” (di quelli che a ben guardare “giungono spesso”) datato 18 marzo 1791, giorno in cui “Trachim B. fu bloccato, o non lo fu, dal suo carro contro il letto del fiume Brod”, perse tutti i suoi averi e annegò (o non annegò, limitandosi semplicemente a scomparire per sempre) regalando allo shtetl, al villaggio ebraico che sorgeva vicino alle sue sponde, una bambina (la bis-bis-bis-bis-bisnonna dello scrittore), e poi bruscamente avanti fino ai giorni nostri, quando un giovanissimo Jonathan Safran Foer, aiutato da un coetaneo ucraino, da suo nonno e dal loro cane – battezzato, in omaggio ai gusti musicali del nonno, Sammy Davis Junior Junior e affetto da più di una compulsione di natura squisitamente sessuale -, impiegati dell’agenzia “Viaggi Tradizione” e assunti per l’occasione, decide di ritrovare proprio quello shtetl, e in particolar modo una dei suoi abitanti, Augustine, colei che probabilmente salvò suo nonno dalla furia sterminatrice delle milizie hitleriane consentendo proprio a Jonathan, e a chi verrà dopo di lui, di aprire gli occhi alla luce e respirare, lo scrittore americano dà forma a un mosaico, a una realtà formicolante d’energia e vita che ai confini, alle barriere e agli ostacoli disseminati ovunque attorno a noi oppone la libertà assoluta e vertiginosa della compassione, la lealtà piena dell’amore, la nobiltà incorruttibile del vero.

Distante da ogni ingenuità, da ogni facile (e stucchevole) moralismo, Safran Foer evita la strada diretta della denuncia così come si sottrae, senza rimorso alcuno, al dovere della testimonianza; egli prende dai fatti esclusivamente ciò che possono donargli, la cronaca di quel che è successo. Ma nel momento in cui questa eredità d’orrori e amori, viltà ed eroismi nelle sue mani si fa romanzo ogni distanza si cancella, il tempo si fa espediente letterario e da esso, da suo scorrere folle e senza meta, a emergere non è che l’uomo, chiamato all’esclusivo compito di essere ciò che è.

Eccovi l’incipit. La traduzione (ottima nel restituire intatta la vivacità della prosa dell’autore, che in più punti, per esempio quando lascia la parola al giovane ucraino Alex, voce narrante del viaggio, e al suo inglese irresistibilmente creativo, strappa genuine risate) per Guanda è di Massimo Bocchiola. Buona lettura.

Il mio nome per la legge è Alexander Perchov. Ma tutti i miei amici mi chiamano Alex, perché è una versione del nome più pratica da pronunciare. Mia madre mi chiama Alexi-basta-di-ammorbarmi perché sempre la ammorbo. Se volete sapere perché sempre la ammorbo, è perché sempre sono in altri posti con amici, e seminando tanta moneta e eseguendo così tante cose che possono ammorbare mia madre.

2 commenti su “Sii ciò che sei”

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *