Recensione di “Le nostre anime di notte” di Kent Haruf
L’amore impetuoso che lento sfiorisce nell’abitudine all’affetto; il quotidiano, ormai incapace di sorprendere, accolto con la stessa gentile noncuranza con cui si mormora il buongiorno a chi si incrocia lungo la via; e la cortesia impeccabilmente indossata, dispensata con generosità, ma talmente anonima, fredda e distante nella sua severa veste di atto compiuto per dovere da ferire, da mutarsi in gesto crudele.
E l’assalto improvviso e indecifrabile della morte, il suo inevitabile accadere che tuttavia coglie sempre impreparati, travolgendo, sconvolgendo, mandando all’aria ogni equilibrio. E con la morte, dinanzi a quello spietato apparire che abbandona i vivi a una gravosa eredità di rimorsi e rimpianti, all’inquieto abbraccio di dolori subiti e inflitti, il dono possibile di anni diversi, di qualcosa che non sia quel che è già stato, o che somigli a ciò che il tempo ha già osservato e giudicato ma ne lavi le imperfezioni, gli errori, le mancanze. La morte, come ultimo possibile risveglio di coloro che ai morti sopravvivono.
“Mi chiedevo se ti andrebbe qualche volta di venire a dormire da me […]. Ce ne stiamo per conto nostro da troppo tempo. Da anni. Io mi sento sola. Penso che anche tu lo sia. Mi chiedevo se ti andrebbe di venire a dormire da me, la notte. E parlare [….]. Sto parlando di attraversare la notte insieme. E di starsene al caldo nel letto, come buoni amici. Starsene a letto insieme, e tu ti fermi a dormire”. La fine di una vita, e nel medesimo tempo il principio di un’altra ormai avviata verso il quieto tramonto dei suoi ultimi anni; in questo modo la morte bussa alla porta degli anziani vicini di casa Addie Moore e Louis Waters, colpiti dalla perdita dei rispettivi coniugi, come un insolito, incongruo, bizzarro eppure in qualche modo ideale, adatto, puntuale, schiudersi di un nuovo orizzonte.
Dei loro primi, timidi passi, di quel confondersi ingenuo che è dei giovani cuori innamorati, dei corpi acerbi e del loro bisogno di conoscersi e unirsi, e che si fa vertigine nel momento in cui si scopre che tutte le esperienze fatte, tutto ciò che gli anni ci hanno insegnato (o che crediamo di aver capito) non sono che attesa e ricerca di un’emozione nuova, e puro, incontaminato bisogno di felicità, del crescere e rafforzarsi di un sentimento che è comunione spirituale, e forma d’amore, e possibilità di riscatto, e battesimo in una nuova vita, in un esistere diverso da quello che abbiamo alle spalle e che sia davvero espressione di ciò che siamo, che ci rifletta con sincerità accettandoci, assolvendoci, rigenerandoci, permettendoci, come un giudice benevolo e saggio, di affrancarci dai nostri sbagli, dalle nostre colpe, narra, con una prosa di singolare splendore, capace, nella sua immediatezza, nella sua straordinariamente feconda semplicità espressiva, di giungere al cuore delle cose, cogliere il loro significato ultimo e offrirlo in dono al lettore con grazia squisita, lo scrittore americano Kent Haruf nel romanzo breve Le nostre anime di notte (in Italia pubblicato da NN Editore nella traduzione di Fabio Cremonesi).
La voce dolce e fragile dei protagonisti del romanzo di Haruf, due anziani che non sono mai stati veramente amici né mai del tutto estranei, le cui famiglie, prossime le une alle altre nel minuscolo, finito universo dell’immaginaria contea contadina di Holt, in Colorado, teatro nel quale la storia si svolge, si sono sfiorate in quell’evanescente condivisione di gioie e drammi decisa dall’imperscrutabile gioco della sorte senza che nessuno riuscisse realmente a comprendere la portata e le conseguenze di ciò che di volta in volta succedeva, è un canto che pagina dopo pagina acquista vigore, chiarezza e dignità. La scelta di Addie e Louis, la loro volontà di dividere i giorni e le notti, divenuti fardello insopportabile da passare in solitudine, lontani dai figli ormai grandi, circondati da case la cui vastità, in passato utile, funzionale, perfino calda, si è fatta estranea, ostile, è a un tempo riscoperta di sé e rinascita.
Nel susseguirsi delle notti, le parole si fanno confessioni, e le confessioni ammissioni di colpa, e le ammissioni di colpa promesse di fedeltà a un futuro divenuto d’improvviso concreto, finalmente a portata di mano come l’agognata fine di un lungo e tormentato viaggio. A fianco di Louis, Addie è libera di rivelare (in primo luogo a se stessa) come il suo matrimonio, minato dalla morte della loro figlia, investita da un’auto ancora bambina sotto gli occhi del fratellino, sia stato, se non completamente infelice, di certo qualcosa di incompiuto, di non riuscito (del tutto simile, nel suo naufragio, alla vita vissuta fino a quel momento), così come, accanto a lei, egli può raccontare le sue cadute (la relazione extraconiugale, il rapporto mai sbocciato con la figlia), raccoglierle per farne parte di sé senza più doversene vergognare, e ripartire. Ma anche in una vita come questa, che pare sbocciata dal nulla, anche in questa sublime infanzia dell’esistere che stringe due vecchi in un tenero abbraccio d’amore e reciproco sostegno e profuma di sogno e di bellezza, è l’irrompere del presente, il fragore del reale, a spezzare l’incanto. Uniti in una sola anima, Addie e Louis restano comunque due persone, due singolarità, restano un padre e una madre con le rispettive famiglie, e due elementi di una comunità che non vede di buon occhio ciò che non avrebbe mai la fantasia di immaginare né il coraggio di realizzare; ed è contro tutto questo, contro il gratuito pregiudizio del prossimo e la meschina, cieca insensibilità dei propri figli (che forse altro non è se non il frutto dei loro errori), che quel che hanno costruito e difeso va in pezzi, mentre i loro cuori, separati a forza, non cessano di cercarsi.
Romanzo di straordinaria intensità emotiva, Le nostre anime di notte non è semplicemente un piccolo, perfetto gioiello letterario, è un’attenta, minuziosa poetica del cuore umano, un omaggio alla sua grandezza e un pietoso, indulgente sguardo alle sue debolezze.
Eccovi l’incipit. Buona lettura.
E poi ci fu il giorno in cui Addie Moore fece una telefonata a Louis Waters. Era una sera di maggio, appena prima che facesse buio. Vivevano a un isolato di distanza in Cedar Street, nella parte più vecchia della città, olmi e bagolari e un solo acero cresciuti sul ciglio della strada e prati verdi che si stendevano dal marciapiede fino alle case a due piani.
L’ha ribloggato su l'eta' della innocenza.