Recensione di “Tra donne sole” di Cesare Pavese
Un ritratto psicologico intriso di dolore e risentimento e nello stesso tempo un affresco sociale di impressionante durezza. E una filosofia archeologia del riscatto, l’esplorazione audace di un’anima in tumulto che si conclude con una sconfitta, con un’incondizionata resa all’assenza di senso. Un romanzo breve interamente giocato sulla vita dello spirito, sui sussulti emotivi, sui desideri, le illusioni, le rinunce, su quella trama di sogno di bisogni e fantasie che precipita come pioggia sulle delusioni e i compromessi della vita vissuta, della realtà quotidiana.
Una narrazione in prima persona che rinuncia a qualsiasi superflua ricchezza stilistica, a ogni inutile sovrabbondanza, che non si preoccupa di cedere il passo all’eleganza formale; uno scrivere secco, diretto, un artigliare l’attimo dal sapore quasi animalesco, che svela un’urgenza di verità sentita prima di tutto come una necessità etica, e una protagonista impegnata più a celarsi che a mostrarsi, più a nascondere la propria saggezza, il proprio sapere di uomini e cose, imparato sulla propria pelle come si impara la fatica, nello stesso modo in cui si fa esperienza della cattiveria, collezionando cicatrici la cui memoria non teme il passare del tempo, che a parteciparla, una donna che torna là dove era stata bambina, e da dove, bambina, era fuggita per dimenticare umiliazioni e stenti, a incontrare un destino cui credeva di aver voltato le spalle per sempre.
Tra donne sole, intenso e spietato romanzo di Cesare Pavese, dà forma a un materiale narrativo talmente complesso da sembrare quasi inesistente; il ritmo della scrittura, così veloce da apparire forsennato, se da un lato è eco perfetta dell’incessante lavorio della coscienza e del grumo di contraddittori sentimenti provati da Clelia, voce narrante del romanzo, modista di successo giunta ad affermarsi grazie alla caparbietà e al lavoro, dall’altro rende quasi evanescente tutto quel che intorno a Clelia si consuma; le sue conoscenze del bel mondo torinese, le “donne sole” del titolo, espressione di un corpo sociale malato, viziato e debole, per il quale è come se non esistessero più motivi di interesse, e con loro gli uomini che le accompagnano, tutti in qualche misura già segnati dal marchio d’infamia del fallimento.
Priva d’importanza perché sostanzialmente priva di significato, l’umanità che Clelia incrocia nel corso del suo breve e faticoso soggiorno torinese (lì l’hanno mandata i proprietari della casa di moda per cui lavora, a sovrintendere i lavori di ristrutturazione di un negozio di prossima apertura) ha la precarietà di un pensiero fuggevole, il sapore amaro di rimpianto, l’accenno disordinato di una decisione presa e poi abortita, e mai la consistenza, la pienezza di qualcosa di autentico, la materialità, non importa quanto arrogante o importuna, di un fatto. Tutto è mediato dallo stato d’animo di Clelia, dalla sua sorda furia nei riguardi della ricchezza altrui, dal livore che non può non provare verso chi la propria condizione di privilegio non l’ha conquistata ma l’ha semplicemente ricevuta in dono (con ogni probabilità senza meritarsela), dall’insoddisfazione crescente che sente verso se stessa e dalla burbera pietà che le muove la più fragile tra le “amiche”, la più sola tra le “donne sole”, la giovane Rosetta, suicida mancata il giorno stesso nel quale Clelia giunge a Torino e poi di nuovo vittima della propria inconsolabile disperazione, della sua inappagata sete d’amore e considerazione.
Con gli occhi di Clelia (e più ancora con il suo cuore), Cesare Pavese guarda e giudica una società intera e in essa una generazione il cui stile di vita sprofonda nelle sabbie mobili di un perbenismo di maniera così artefatto da avere come unico antidoto un cinismo altrettanto menzognero e falso, fatto soltanto di gratuite crudeltà, tuttavia la sua identificazione con l’eroina di un romanzo che conta soltanto sconfitti resta parziale; egli, certo, offre all’indignazione di Clelia la laica benedizione delle sue parole ma con quelle stesse parole mette la donna di fronte alle sue responsabilità, costringendola ad ammettere gli errori commessi e infine ad arrendersi a essi, ad accettare di non potersi salvare, di continuare a vivere fino alla fine dei suoi giorni orfana di quel coraggio immaturo ma senza dubbio incorrotto che ha accompagnato Rosetta nel suo breve e travagliato viaggio.
Eccovi l’incipit del romanzo, pubblicato da Einaudi assieme a un carteggio tra l’autore e Italo Calvino (che di questo lavoro fu critico severo) e alla sceneggiatura del film Le amiche, diretto da Michelangelo Antonioni nel 1955. Buona lettura.
Arrivai a Torino sotto l’ultima neve di gennaio, come succede ai saltimbanchi e ai venditori di torrone. Mi ricordai ch’era carnevale vedendo sotto i portici le bancarelle e i becchi incandescenti dell’acetilene, ma non era ancor buio e camminai dalla stazione all’albergo sbirciando fuori dai portici sopra le teste della gente.