Recensione di “Perché Yellow non correrà” di Hans Tuzzi
“La presenza, tra i personaggi, di una figura storica come Rodolfo Siviero intende costituire un modesto omaggio a uno di quegli Italiani, né furono pochi dall’Unità a oggi, che hanno rappresentato la nazione meglio di quanto essa meriti. Tutte le frase attribuitegli […] sono tratte più o meno fedelmente dai suoi scritti, e in particolare da L’Arte e il Nazismo (Cantini, Firenze, 1984), senza comunque mai tradirne il senso. E altrettanto si dica per Pio Bruni, prodotto d’una classe di gentiluomini della quale s’è ormai perso lo stampo. Per il resto, come si usa dire, ogni riferimento a fatti e persone reali è puramente casuale”. Al di là dell’intreccio giallo che definisce Perché Yellow non correrà di Hans Tuzzi sono queste parole dell’autore a mettere l’accento su quel che il romanzo è davvero, sui temi che affronta e le prese di posizione che assume, sull’agrodolce ritratto di Milano (teatro degli avvenimenti narrati) offerto dalle sue pagine, città dipinta in chiaroscuro, con una sorta di angoscioso affetto, città accarezzata nelle sue contradditorie fragilità, fotografata nella sua goffa innocenza (siamo nel 1980) e nel turgore malato delle sue molte colpe, delle sue infedeltà, della sua forsennata corsa alla ricchezza, al benessere, immaginata con lucidità impressionante nel suo domani di travolgente modernità, ingioiellata di superfluo e spogliata di ogni residuo d’identità, dell’ultima ombra di dignità.
Nel sentiero tortuoso di un enigma da sciogliere (un duplice caso di omicidio, due efferati fatti di sangue che sembrano non avere tra loro alcun punto in comune, eccezion fatta per il luogo in cui sono avvenuti) Tuzzi ritrae il lento, sofferto tramontare di una borghesia colta e raffinata che sembra non riconoscere più la città che ha da sempre considerato come casa propria; ed è all’ombra di questa separazione, di questa dolorosa frattura sociale, che i predatori trovano nuovi spazi di manovra, è nel sottobosco sempre più diffuso di un’illegalità dapprima tollerata, poi guardata con una specie di ambigua simpatia e infine preferita a qualsiasi altra alternativa che uomini d’affari privi di scrupoli e burattinai pronti a tutto per raggiungere i propri scopi possono agire in piena libertà. Ed è qui,in un giorno d’aprile, che trova la morte un uomo, il volto sfigurato da un colpo di pistola sparato a bruciapelo per impedirne l’identificazione, e qui comincia, per il commissario di polizia Norberto Melis, un’indagine complessa, che si protrarrà per mesi e lo porterà contatto con ambienti equivoci ed estremamente pericolosi.
La narrazione di Tuzzi, lenta, dilatata, sospesa su un colpo di scena che non accenna ad arrivare, ha il respiro dell’inchiesta, ne segue l’organizzazione, ne condivide le speranze, le attese, le frustrazioni; ma intorno al lavoro dei poliziotti non è soltanto l’ investigazione a crescere ( il cadavere, malgrado gli sforzi del suo assassino, viene identificato, ma questo paradossalmente sembra complicare ancor più le cose, perché la vittima, un ingegnere, ha sempre condotto una vita di specchiata onestà; e in più, in parallelo con questo omicidio c’è anche quello di un senzatetto, semplice all’apparenza anche se qualche dettaglio fa pensare che le cose non siano come appaiono ); con gli occhi del commissario Melis, dei suoi aiutanti e di una ristretta cerchia di amici (su tutti la fidanzata e il raffinato editore per il quale lavora) Hans Tuzzi guarda alla società e alle sue storture ed è impietoso nel giudicarla quanto è dolce e cameratesco con i caratteri cui dà vita. Con una nettezza figlia di una ben precisa visione storico-politica, l’autore divide nettamente i giusti dagli ingiusti e nel farlo non inciampa mai in gratuite superficialità; il passato prossimo dell’Europa, sfregiata dal secondo conflitto mondiale, umiliata da dittature odiose, la più spregevole delle quali è stata quella hitleriana, non lascia dubbi di sorta, è necessario opporsi a ogni lettura che voglia intenda ammorbidire le responsabilità dei carnefici ed è ancor più imperativo combattere coloro che ai verdetti della storia non intendono rassegnarsi e che sognano un ritorno alla tirannia.
Nel solco etico di Friedrich Dürrenmatt, tra atmosfere e suggestioni che richiamato la Milano di Giorgio Scerbanenco, Tuzzi nobilita il giallo regalando ai lettori insieme una trama avvincente, un abilissimo gioco di specchi dove abbondano tanto le false piste quanto le sorprese (né mancano buffe parentesi da commedia, giocate sulle “particolarità” regionali dei personaggi, dalle abitudini a tavola fino alla ricchezza espressiva e alla spontaneità dei diversi dialetti), un romanzo denso, ricco, impreziosito da una scrittura di rara eleganza e ancor più rara sobrietà e che chiude in un perfetto circolo narrativo una vicenda che oltre a coinvolgere, divertire ed emozionare, non cessa di schierarsi, di prendere posizione, di sottolineare, di ribadire, annodando alla finzione letteraria la realtà incarnata da Siviero e Bruni.
Eccovi l’incipit. Buona lettura.
Mosche sui muri, e segni neri senza vita. Dal letto poteva controllare finestra e porta. Oltre la finestra, un diverso grigio, fuori, oltre il vicolo. E, dal vicolo, pioggia e odore.