Recensione di “Un mese in campagna” di James Lloyd Carr
La guerra e l’orrore da una parte; il suo ossessivo ricordo e il tentativo di sfuggirgli dall’altra. E nel mezzo, l’intervallo quasi miracoloso di un’estate, il placido splendore della campagna inglese, la maestà silenziosa di una chiesa, la scoperta delle vite degli altri, chiuse nel cerchio imperfetto e solidale di un minuscolo, sonnolento villaggio, il richiamo dei secoli trascorsi, che respira in un affresco del quattordicesimo secolo da riportare alla luce, e infine l’amore, che un incontro improvviso risveglia.
Accomodato in una prosa lieve e splendida, non priva d’ironia e insieme venata di tristezza, di quell’acuta nostalgia che sempre si accompagna alla memoria di ciò che è stato e che mai più potrà essere di nuovo, questo semplice (e tuttavia ricchissimo) materiale narrativo germoglia in un romanzo di non comune fascino, poetico quanto può esserlo una fiaba, prezioso nel modo in cui lo sono le storie inventate per stupire, incantare, sedurre, acuto e profondo come una riflessione, autentico e sincero come una confessione.
Un mese in campagna di James Lloyd Carr (in Italia pubblicato da Fazi Editore nella traduzione di Silvia Castoldi) è un’entusiasmante avventura dello spirito; nel mettere a nudo il cuore del suo protagonista – Tom Birkin, reduce dalla Grande Guerra con alle spalle il naufragio del proprio matrimonio e poca o nessuna voglia di ricominciare a vivere – l’autore non si limita a tracciarne un dettagliato ritratto psicologico; sceglie invece (e di scelta felicissima si tratta) di ampliare l’orizzonte di quel che racconta disegnando, tappa dopo tappa, il fortuito concatenarsi di una serie di circostanze grazie alle quali Birkin trova la forza per donare a se stesso una seconda possibilità, per concedersi una speranza.
Come scrive Penelope Fiztgerald nella prefazione al romanzo, alternando alla trama del libro una sua interpretazione, “Siamo nel 1920 e Tom Birkin è tornato dalla trincea con un tic nervoso al volto che secondo i medici forse migliorerà col tempo. Da uno degli ultimi esperti ha imparato il mestiere di restauratore di affreschi medievali […]. Birkin arriva alla stazione di Oxgodby quando ormai si è fatto buio, sotto una pioggia battente […]. La pioggia cessa, e il giorno successivo segna l’inizio della dorata, serena, incomparabile estate del 1920. Per Tom Birkin «con i nervi a pezzi, abbandonato dalla moglie, senza il becco d’un quattrino», quell’estate segnerà, quasi suo malgrado, un processo di guarigione. Come Solzenicyn ne La Casa di Matriona, il suo desiderio era stato di tagliarsi fuori e perdersi nel cuore remoto e intimo della campagna […]. Eppure ritrova se stesso, in primo luogo grazie all’aspetto esteriore delle cose […]. In secondo luogo, grazie al loro funzionamento […]. In terzo luogo, grazie alla natura”.
Ed è proprio questa universalità che pare sprigionarsi fin dai più piccoli particolari il maggior incanto dell’opera di Carr. Chiara metafora del rinnovamento spirituale di Birkin, l’affresco che egli è chiamato a riscoprire, e che si rivela essere un Giudizio Universale (altra metafora nella metafora, con le anime contorte dei dannati condannati all’eterno supplizio specchio dell’inferno in terra vissuto da Tom Birkin in trincea, e quelle trionfanti destinate alla beatitudine speranza di un domani cui l’uomo poco alla volta si accorge di riuscire ancora a pensare), è il fil rouge dell’intera storia. È grazie a esso, è occupandosi di esso, è nella relazione che Tom Birkin costruisce con lo sconosciuto artista vissuto settecento anni prima di lui che questo ex soldato senza più nulla da chiedere ai propri giorni ritrova dapprima il piacere della compagnia (una delle persone con cui lega di più è Moon, anche lui ex soldato, anche lui in quel luogo per una ricerca di carattere storico), poi la capacità di confronto, che porta con sé tanto l’asprezza (nei rari scambi di battute con il reverendo Keach, supervisore e responsabile del suo lavoro di restauro) quanto quella duttilità che spesso sfiora l’ipocrisia e che è il tratto comune di qualsiasi relazione sia superficiale abbastanza da poter essere affidata all’immediatezza della buona educazione, e in ultimo l’amore (per una donna sposata, la moglie del reverendo Keach, bellissima e probabilmente infelice), intensamente desiderato ma non colto.
Elogio dell’eternità di tutto ciò che si prova, – “Il tono di Un mese in campagna”, scrive ancora Penelope Fitzgerald, “[…] non è quello della semplice rimembranza […] o della semplice nostalgia, e nemmeno quello dell’acuta sensazione della perdita della giovinezza. Lo stato d’animo del narratore è più complesso […]. Si tratta della nostalgia di qualcosa che non abbiamo mai avuto – è un’ininterrotta catena di emozioni, un romanzo straordinariamente intenso che la narrazione in prima persona rende ancora più coinvolgente; è una lettura tanto lieve e dolce quanto difficile da dimenticare.
Eccovi l’incipit. Buona lettura.
indietro sulla banchina qualcuno gridava disperatamente «Oxgodby… Oxgodby». Nessuno si offrì di aiutarmi, perciò risalii e rientrai nello scompartimento, di nuovo inciampando su piedi e caviglie per arrivare alla borsa da pesca (sulla rete portabagagli) e alla brandina pieghevole (sotto il sedile).