Recensione di “I ragazzi Burgess” di Elizabeth Strout
Il successo professionale e l’armonia familiare non sono che maschere, finzioni, artifici; l’autorevolezza costruita ad arte e la studiata sicurezza di sé dozzinali trucchi da artista di strada, maldestri scongiuri e incongrue formule magiche utili forse a tenere lontana la verità, a ignorare la spietata realtà dei fatti, ma del tutto inconsistenti quando in gioco ci sono le persone e la loro salvezza.
E l’oggi, il presente, il qui e ora, è semplicemente una striscia di sabbia sulla quale incessante si rovescia il respiro liquido dei ricordi, dei rimorsi, delle ossessioni e dei sensi di colpa, cancellando, nella sua eterna ronda di sentinella, ogni distanza da ciò che è stato, ogni tentativo di fuga dalle cose che sono accadute, ogni possibile reinterpretazione di quel che è successo, del passato così come si è svolto, perché noi siamo le scelte che abbiamo compiuto, la strada che abbiamo percorso, quell’unica strada imboccata fra le migliaia di percorsi possibili, tra le innumerevoli alternative che si spalancano dinanzi a ciascuno alla vigilia di una decisione da prendere. A comporre la trama del presente, dunque, è prima di tutto la nostra responsabilità verso quel che abbiamo compiuto nel passato; e a formare il tessuto dei nostri giorni sono la consapevolezza di questa responsabilità, il coraggio di accettarla o il bisogno, l’ansia, terribile come un morbo, di sfuggirle. Ed è proprio tra il ricordo di una tragedia (che è memoria, certo, ma che soprattutto è incubo) e la responsabilità di essere stato causa (o una delle cause) del suo scatenarsi, del suo irrompere, che si muove il bellissimo e crudele romanzo di Elizabeth Strout I ragazzi Burgess, dramma familiare narrato quasi come un flusso di coscienza, nel quale il piano temporale che dovrebbe inquadrare di volta in volta l’azione risulta fuori fuoco, instabile, “disturbato” dal sussultare dei ricordi, di un passato che sembra aspettare soltanto l’occasione propizia per tornare a farsi sentire, per trasformarsi da semplice oggetto chiuso nel proprio inviolabile mondo interiore a voce dell’anima, dello spirito, del cuore.
È un viaggio a ritroso nel tempo quello cui dà vita Elizabeth Strout in pagine splendide e commosse, sorrette da una prosa essenziale e ricchissima, capace di delineare con un’immediatezza che non può non lasciare sbalorditi caratteri di straordinaria complessità, ritratti in chiaroscuro che si rivelano poco a poco, come confessioni timide sussurrate nella penombra complice di una stanza, come quelle caute aperture che segnano il principio di un’amicizia, come quei doni improvvisi e generosi di sé all’altro che sono indizio certo di un amore sbocciato; un viaggio che vede i protagonisti del suo romanzo, i tre fratelli Burgess Jim, Bob e Susan non più ragazzi (anzi, adulti prossimi varcare il confine che separa la maturità dalla vecchiaia) eppure ancora ragazzi, persone ancorate a un’età in cui tutto era possibile, nella quale i torti potevano essere riparati e un equilibrio, non importa quanto precario ristabilito.
E a quella stagione, come a un’irresistibile luogo naturale in grado di calamitare verso di sé corpi e anime, i fratelli, pur senza volerlo, tornano di continuo, rivivendo la loro giovinezza a Shirley Falls, una povera cittadina di provincia incastrata nel Maine quasi fosse un vortice di polvere finito sotto un mobile, ripercorrendo gli anni di studi, i primi amori e il progressivo sclerotizzarsi di una gerarchia familiare violenta e soffocante, figlia illegittima di un incidente terribile: la morte del loro padre, schiacciato dall’auto di famiglia inavvertitamente messa in moto dal più piccolo dei Burgess, Bob, quattro anni d‘età, gemello di Susan e fratello di Jim, di quattro anni più grande.
Da quel momento, ogni cosa in casa Burgess cambia; Jim sente su di sé l’urgenza di andarsene, di crescere più in fretta dei suoi anni e di smettere di essere un Burgess, un perdente, un ragazzo povero, il fratello di un omicida (incolpevole, naturalmente, ma cosa importa che non possa essere considerato penalmente responsabile per ciò che ha fatto, dal momento che ha ucciso il loro padre?); così cresce, studia con profitto, diventa avvocato, un bravissimo avvocato, ottiene grande notorietà grazie a un processo che lo vede difendere con successo una celebrità che con ogni probabilità è colpevole, sposa una donna ricca che lo rende padre di tre figli e si trasferisce a New York.
Anche Bob sceglie New York, ma la sua vita è l’opposto di quella di Jim; il suo matrimonio va in pezzi quando marito e moglie scoprono che lui non può avere figli e a Bob non resta che scegliere una pallida sopravvivenza fatta di un lavoro anonimo nelle retrovie del sistema giustizia (perché per battersi in aula ci vuole qualcuno come Jim, forte, carismatico e consapevole delle proprie qualità) e abbruttita da troppo alcol e troppe sigarette.
Susan invece resta a Shirley Falls, ma anche il suo matrimonio fallisce; il marito, originario della Svezia, fa ritorno al proprio Paese e a lei non resta che un figlio – un maschio di nome Zach nato dopo che lei aveva perso una bambina per un aborto spontaneo – che non comprende e che non la comprende, e che un giorno, per chissà quale motivo si ritrova in un mare di guai per aver gettato una testa di maiale in una moschea dove è solita riunirsi in preghiera una comunità di profughi Somali in fuga dalla propria terra devastata da una sanguinosa guerra intestina. L’attualità, la guerra in Somalia, l’atteggiamento ambivalente dell’America, rifugio per coloro che scappano e nello stesso tempo nazione che a livello politico e diplomatico ha più di un rapporto equivoco con chi ha fatto sprofondare la Somalia in un girone infernale di sangue e morte, è un mero pretesto narrativo per la scrittrice americana, che dall’attimo che fugge, da ciò che fra un’ora soltanto sarà già storia prende le mosse per raccontare le storie, patetiche, dolenti ma anche bagnate di speranza e fiducia, di uomini e donne perduti, di un’innocenza sfiorata e poi abbandonata nel gelido inverno del Maine, stato depresso e dimenticato nel quale vivere è difficile perché il lavoro manca e la popolazione inesorabilmente invecchia, ma dove ha ancora un senso appartenere a qualcosa, a qualcuno. Qui, in questo Maine che sembra capace di ospitare soltanto vite incolori incendiate dal sorgere e dal morire delle stagioni, Jim, Bob e Susan, chiamati, ciascuno secondo la propria natura e le proprie possibilità ad aiutare Zach, che rischia di essere perseguito per crimine d’odio, reato di competenza federale, faranno finalmente i conti con il proprio passato, torneranno, un’ultima volta, a essere i ragazzi che forse non sono mai stati (se non per un brevissimo istante) per poter finalmente cessare di esserlo, e diventare adulti.
I ragazzi Burgess non è soltanto un romanzo meraviglioso, è una riflessione difficile da dimenticare per onestà intellettuale e profondità critica su temi che riguardano da vicino ciascuno di noi, di più, sulla nostra vita, e sul modo in cui scegliamo di viverla.
Eccovi l’inizio. La traduzione, per Fazi Editore, è di Silvia Castoldi. Buona lettura.
Io e mia madre parlavamo molto spesso della famiglia Burgess. «I ragazzi Burgess», li chiamava lei. Ne parlavamo soprattutto al telefono, perché io abitavo a New York e lei nel Maine, ma anche quando andavo a trovarla e alloggiavo vicino a casa sua. Mia madre non era stata in molti hotel, perciò divenne una delle nostre abitudini preferite: sedere in camera, tra le pareti verdi con gli stencil di rose rosa, a parlare del passato, di quelli che avevano lasciato Shirley Falls e di quelli che erano rimasti.