Recensione di “La zia Tula” di Miguel de Unamuno
«I miei fratelli mi aiutavano in tutti i modi a servire Dio. Sebbene sentissi grande affetto per essi ed essi per me, ve n’era uno quasi della mia età che io preferivo. Ci riunivamo per leggere insieme la vita dei santi…» […]. Prima di terminare questo prologo ci sia permesso di fare un’altra osservazione che a qualcuno potrà sembrare una sottigliezza di linguistica e di filologia e che, invece, è di psicologia. Ma la psicologia è qualcosa di più della linguistica e della filologia?
L’osservazione consiste nel fatto che come possediamo le parole paterno e paternità che derivano da pater, padre, e materno e maternità da mater, madre, e che non sono la stessa cosa […] è strano che accanto a fraterno e fraternità da frater fratello, non possediamo sororale o sororità, da soror, sorella. In latino vi è sororius, a, um, ciò che è della sorella, ed il verbo sororiare, crescere insieme. Ci diranno che la sororità equivale alla fraternità, ma non crediamo che sia così. Se in latino figlia avesse un appellativo con radice differente da quella di figlio, varrebbe la pena distinguere fra le due qualità di figlio. Sororità fu quella dell’ammirevole Antigone, questa santa del paganesimo ellenico […]. Inoltre le fondamenta della civilizzazione, la domesticità, sono sostenute dalle sorelle, dalle zie, o dalle spose in spirito, castissime, come quell’Abisag, la sulamita della quale è detto nel capitolo I del primo Libro dei Re, quella fanciulla che portarono al vecchio re Davide, ormai vicino alla morte, affinché lo sostenesse nelle ultime ore della sua vita, coprendolo e scaldandolo nel letto mentre dormiva. Ed Abisag sacrificò a lui la sua maternità, rimase vergine per lui – poiché Davide non la conobbe […]. E adesso che il lettore ha letto questo prologo – che non è necessario per capire ciò che segue – può far conoscenza con la zia Tula che, se seppe qualcosa di Santa Teresa […] forse nulla seppe di Antigone la greca e di Abisag l’ebrea”.
Un colto prologo intriso di sottilissima ironia (al punto che la prima indicazione dell’autore è che chi legge può benissimo fare a meno di soffermarsi su queste pagine, che invece si rivelano indispensabili) offre la chiave di lettura di La zia Tula, romanzo breve di Miguel de Unamuno che è a un tempo una drammatica storia di famiglia, una riflessione sui legami di sangue e sul rapporto genitori-figli, un filosofico interrogarsi sulle verità ultime (cosa significa amare? E cosa rinunciarci? E cosa sostituire al bisogno d’amore il sacrificio di sé? Qual è il confine che divide il più generoso altruismo dal più cieco egoismo?) e uno studio psicologico di impressionante profondità.
E lo fa proponendo tre esempi – tratti dalla vita di Santa Madre Teresa di Gesù, dall’eroismo di Antigone, che sceglie di disobbedire alle leggi del re per non tradire al lealtà che deve a sé e alla propria coscienza di donna e di sorella, e infine dal sacrificio di Abigad – che sono altrettante possibili interpretazioni della vicenda narrata (e non importa che Tula, la protagonista del lavoro di Unamuno, nulla sappia dell’eroina pagana e di quella cristiana). Dapprima ragazza e poi donna senza mai divenire sposa per poter essere, in ogni istante della sua vita, sorella (della bella e innocente Rosa), zia e infine madre dei suoi figli, Geltrude, detta Tula, compie la scelta radicale di rinunciare a sé per potersi donare completamente al prossimo. Passo dopo passo, guidata da un’etica, da una morale che lei soltanto è in grado di comprendere – con straordinaria finezza Unamuno sottolinea come le due sorelle, cresciute da uno zio curato, uomo semplice, capace di dispensare soltanto qualche consiglio tratto dai libri che gli servivano “per scrivere le sue modeste prediche”, erano state obbligate a crearsi da sé la propria scala di valori, che risulta dunque essere qualcosa di squisitamente umano, di fallibile, di imperfetto, pur nella sua grandezza – Tula diventa, per una famiglia cui appartiene solo per accidente, il punto di riferimento e il vertice. Ma a quale imperativo categorico obbedisce, Tula? In nome di cosa si impone una disciplina così dura, che la riconoscenza di figli dei quali mai sarà madre mitiga soltanto in parte? Non di un amore cristiano, risponde fra le righe Unamuno, perché quella dottrina insegna ad amare il prossimo come se stessi, non più di stessi (cosa impossibile, sovrumana al punto da sconfinare nel diabolico), né a causa di qualche innominabile colpa da espiare. Di che si tratta, allora? È forse uno smisurato orgoglio a spingere Tula sulla strada di una bruciante, terribile solitudine – “È superbia la mia?”, ella si chiede nei momenti in cui la sua fermezza viene meno, quando la sua sete di vita e d’amore la tormenta fino a spingerla alle soglie del delirio, della pazzia “Non sarà la triste passione solitaria dell’ermellino che, per non macchiarsi, non si getta a nuoto in un canale fangoso per salvare il suo compagno? Non lo so… – oppure è paura?
La malattia spirituale di Tula, quella sua specie di distorta estasi che la rende capace di comportamenti che la maggior parte delle persone fatica persino a immaginare, è insieme la sua maggior forza e la sua più grande debolezza; al pari di Abisag lei non teme il sacrificio, anzi lo abbraccia e lo tiene stretto a sé, lo custodisce; sorella di Antigone, è pronta ad affrontare le conseguenze delle sue decisioni, conosce le sofferenze cui andrà incontro, sa che la lacereranno ma sa anche che riuscirà a sopportarle, non in virtù di un sentire superiore, però, bensì per obbedienza a un dovere, quel dovere che è trasfigurazione d’amore per Santa Teresa: - «Restavamo sbalorditi apprendendo da quelle letture che pena e gloria erano eterne. Ci accadeva di discutere lungamente su questo argomento provando un profondo piacere nel ripetere: Per sempre, per sempre, per sempre!» – e che invece per Tula resta inchiodato alla terra, al finito scorrere dei giorni e degli anni di un’esistenza.
Opera di assoluta originalità e di folgorante bellezza, La zia Tula non cessa di provocarci, di interrogarci, di metterci alla prova. Ci invita a esplorare il labirinto delle nostre emozioni, dedalo terribile e meraviglioso che forse non ha vie d’uscita.
Eccovi l’incipit. Buona lettura.
Gli sguardi ansiosi di Ramiro erano per Rosa e non per la sorella Geltrude che sempre usciva con lei. O per lo meno lo credevano loro, Ramiro e Rosa, sentendosi attratti l’un verso l’altra.