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Il racconto dell’indicibile

Recensione di “Vedi alla voce: amore” di David Grossman

David Grossman, Vedi alla voce: amore, Einaudi

“Si può scrivere un libro per molti motivi: per divertimento o per soldi, per gioia o per noia, per consolare se stessi o per consolare l’altro (il lettore). Si può scrivere – e non c’è nulla di male – per mestiere; i libri scritti per mestiere aumentano sempre più col crescere dell’industria culturale. Pochi sono i libri che l’autore scrive per necessità: per una propria ineliminabile necessità e sono i libri che restano, in genere […].


L’enorme letteratura sull’Olocausto si può dividere, molto approssimativamente, in due grandi filoni: quello che mostra la Cosa e quello che, la Cosa, la interroga. Nel primo caso l’esibizione […] è simile alla pornografia. Si mostra l’orrore come si mostra la carne e il lettore si trasforma in un voyeur dell’orrore […]. Il secondo filone, quello che la Cosa la interroga, senza tacerne i dettagli significativi, ma senza sentire il bisogno di mostrarla, ha un esempio perfetto nel lungo film-documentario – poi divenuto anche libro – di Claude Lanzmann, Shoah. Shoah è la Cosa. Nel film di Lanzmann l’Olocausto-Shoah viene interrogato implacabilmente, cercato nei luoghi che nella loro assoluta normalità (campi, boschi, paesi) sembrano teatri impossibili per tanta tragedia […]. Vedi alla voce: amore è il libro che un ex-bambino, messo a confronto con la memoria terribile di ciò che è stato, messo davanti alla Cosa, ha sentito come necessario”.

Nelle parole di Paolo Mauri che introducono quello che con ogni probabilità è il romanzo più complesso, impegnativo, doloroso e potente di David Grossman, quel Vedi alla voce: amore (edito da Einaudi nella traduzione di Gaio Sciloni) che si misura con l’indicibile eredità che ogni ebreo è costretto a portare con sé, a custodire in sé, con la follia dello sterminio nazista, con quell’impossibile sogno di annientamento di un intero popolo divenuto realtà, trasformato in perfetto meccanismo di morte, a farsi strada non è soltanto il bisogno, l’urgenza di raccontare dello scrittore, la sua ansia di trovare un modo per dire ciò che non può essere detto, ma anche (anzi soprattutto) il modo in cui la lingua, messa di fronte a un compito superiore alle proprie forze, si adopera per oltrepassare se stessa, per forzare quei confini al cui interno è racchiuso il senso di tutte le cose.

Vedi alla voce: amore narra l’Olocausto guardando a quel che è accaduto da una prospettiva che è al medesimo tempo nella storia e al di fuori di essa. La ricostruzione di ciò che è stato, pur priva di riferimenti diretti, è presentata al lettore in tutta la sua drammaticità; niente viene taciuto malgrado quasi nulla venga detto esplicitamente. Ci sono, della Shoah, i superstiti, c’è il loro comportamento ossessivo, il loro agire quasi da sonnambuli, incomprensibile a chi non ha conosciuto la realtà dei lager, delle violenze innominabili, delle camere a gas, che testimonia l’impossibilità, per coloro che hanno patito più di quanto sia possibile (a chi vive, e respira, e ama, e odia, e spera e chissà come, ora dopo ora, giorno dopo giorno, resiste) patire, di allontanarsi dalle esperienze fatte per ricongiungersi al presente, per continuare a esistere, e c’è l’innocenza violata di chi (un bambino, Momik Neuman, figlio di sopravvissuti, protagonista della prima parte del romanzo) questa Shoah che tutti cercano di nascondere ma che da ogni parte sfugge, come un urlo impossibile da trattenere, un pianto che non può cessare, un riso isterico che non conosce freno, si sforza di conoscere, di comprendere, di affrontare e di vincere.

E quando il bambino si fa uomo e niente di quel terribile passato è più un segreto per lui (ed eccoci alle altre tre parti del romanzo, che si possono considerare altrettanti tentativi di raggiungere la Cosa, di metterla a fuoco, di inquadrarla, di contemplarla, di studiarla, di farne, finalmente, un oggetto), ecco che è necessario riprendere in mano tutto ciò che la sua febbrile fantasia infantile aveva costruito, tutte le ipotesi fatte, tutti i sospetti coltivati, tutte le conclusioni raggiunte e dare il via a una monumentale opera di rielaborazione, a una fondazione ex nihilo nella quale possano abitare, fianco a fianco, fantasia e verità, bene e male, morte e vita. Scrive ancora Mauri: “Il giovane Neuman, ormai cresciuto, ragazzo almeno se non uomo, si mette a divorare un libro dopo l’altro […] fino a che non si imbatte nel suo autore: il mitico Bruno Shulz, lo scrittore delle Botteghe color cannella, ucciso da una pistola nazista. Momik decide di salvarlo: Bruno non è morto, ma ha preso un treno per Danzica e qui ha visitato una mostra di Edvard Munch […]. Poi è sceso fino al mare e nel mare si è immerso, accolto dalla femminile massa liquida con amore. Siamo ormai nel cuore di un mito, di una invenzione-trasfigurazione mitologica […]. Si tratta nientemeno che della palingenesi del mondo e dell’uomo in particolare, affidata alle personali mitologie di Neuman-Grossman, ed è forse il capitolo più ingenuo e la sfida più difficile”.

E di nuovo dal mare, che forse plasmerà un nuovo mondo come ha plasmato un uomo nuovo, alla terra, alla Cosa, alla tragedia dei milioni di morti e a quella, se possibile ancora maggiore, dei pochi, pochissimi che alla morte scamparono, che videro la fine dell’incubo solo per precipitare in qualcosa di ancora peggiore, nella prigione di un ricordo che non sbadisce. Dal mare alla storia del nonno di Momik, quell’Anshel Wasserman in giovane età scrittore di successo di racconti per ragazzi (che nella prima parte del romanzo, ridotto all’ombra di se stesso, non fa che ripetere in modo talmente sconnesso da risultare del tutto incomprensibile, la sua vicenda, la storia del patto stretto con l’ufficiale nazista a capo del campo di sterminio nel quale era stato internato e dove aveva visto morire moglie e figlia, desiderando, in conseguenza di ciò, soltanto una cosa; la morte anche per sé, la fine) che accetta di narrare al suo aguzzino un’altra delle avventure che lo avevano reso tanto celebre a condizione però che l’ufficiale, se soddisfatto di ciò che ha sentito, acconsenta a finirlo. E di qui, infine, a un’enciclopedia, a un esaustivo riassunto di quel che non può essere espresso filtrato, mascherato, come nel trucco di un illusionista, come in un astuto gioco di prestigio, da biografia di uno specialissimo bambino, un neonato che Wasserman inserisce nella favola che sta imbastendo per il suo carceriere, un bambino che viene al mondo con una strana sindrome, una malattia che gli concede soltanto un giorno di vita, un giorno nel quale egli conoscerà quello che è stato, saprà dell’orrore, della morte, della guerra, dei carnefici e delle vittime. E ogni cosa saprà per poter avere la coscienza di formulare un voto, una preghiera che dovrebbe essere la preghiera di qualsiasi uomo: “che sia possibile che un uomo viva in questo mondo tutta la sua vita, dal principio alla fine, senza mai conoscere la guerra”.

Eccovi l’incipit del romanzo. Buona lettura.

Era andata così, che qualche mese dopo che nonna Heni fu morta e seppellita sottoterra, Momik ebbe un nuovo nonno.

2 commenti su “Il racconto dell’indicibile”

  1. Dopo la lettura, in inglese “See under: love”, ero così colpita che con disciplina e poi godere ho letto tutto (poco purtroppo) Bruno Schulz per poi rileggere il capitolo dedicato a e intitolato “Bruno”. La prima volto la lunghezza di quella fantasia mi aveva esasperato. Ma non potevo rimettere il libro sulla mensola senza un secondo tentativo. Consiglio ogni lettore trasportato dal bambino Momek di leggere almeno “La strada dei coccodrilli” prima di “Bruno” o addirittura di saltare e affrontarlo alla fine. 2° mio consiglio è per “l’enciclopedia” finale. Ognuno, leggendolo, deve farsi un indice delle voci e pagine. Sono in ordine alfabetico ebraico. Ogni voce indica qualche altra ed è giusto poter seguire anche la caccia al tesoro. Che libro infinitamente generoso!

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