Recensione di “Itinerario dell’anima a Dio” di San Bonaventura da Bagnoregio
“Boezio si era proposto di tradurre in latino l’intera opera di Platone e di Aristotele e di mostrare la sostanziale concordanza del loro pensiero, ma è noto che egli non riuscì a portare avanti questo programma. Nulla ci è pervenuto delle sue eventuali traduzioni di Platone e, per quanto riguarda le traduzioni aristoteliche, ci sono giunte soltanto quelle delle Categorie e del De Interpretatione […].
Tuttavia, nonostante l’assenza di fonti dirette, il mondo cristiano venne ugualmente a contatto […] con un certo numero di tesi platoniche e neoplatoniche che, più di altre, sembravano venire incontro all’esigenza cristiana di garantire la spiritualità dell’anima umana ed il suo ritorno a Dio: si pensi, ad esempio, alle ‘prove’ platoniche dell’immortalità dell’anima e allo schema metafisico neoplatonico dell’exitu e del reditus, per cui la realtà procede da Dio e a Lui ritorna. La tonalità religiosa del pensiero platonico e, ancor più, di quello neoplatonico favorì pertanto la loro progressiva integrazione nella visione cristiana della realtà e contribuì a rendere possibile quello stretto coordinamento di fede e ragione che caratterizza le sintesi di pensiero elaborate nel mondo latino almeno fino alla metà del XII secolo. A partire da questa data, e fino alla fine del XII secolo, l’Occidente cristiano conobbe una svolta radicale nel campo del sapere, che si tradusse nella progressiva penetrazione […] di una vasta letteratura filosofica e scientifica, comprendente l’intero corpus aristotelico, accompagnato dai commenti greci e arabi e dagli scritti più significativi del pensiero arabo ed ebraico. In tal modo l’Occidente cristiano veniva per la prima volta a contatto con una visione del mondo costruita senza alcun riferimento al dato rivelato e nella quale la ragione indagava con rigore ed accortezza ogni aspetto del reale, senza tuttavia riferirlo mai a un Dio creatore e provvidente. Questo poneva problemi assai gravi ai pensatori cristiani e suscitava reazioni contrastanti nei confronti del pensiero aristotelico”.
Nella sua bella e ricca nota introduttiva all’Itinerario dell’anima a Dio di San Bonaventura da Bagnoregio, Letterio Mauro mette in evidenza l’importanza dell’opera del grande teologo e filosofo italiano collocando la sua riflessione nel pieno di una crisi di notevolissima portata. Il fallito disegno di Boezio, infatti, e l’emergere sempre più netto della frattura tra pensiero aristotelico e impianto filosofico platonico (cui deve aggiungersi l’apporto, non certo secondario, del neoplatonismo), rappresentano, per il XIII secolo, l’orizzonte all’interno del quale ogni disputa trova la propria ragion d’essere e il proprio scopo. Obbligato a misurarsi con l’autorità – quella degli antichi da una parte, e quella ben più significativa e complessa, della rivelazione dall’altra – a dipendere da essa al punto da potersene allontanare soltanto di pochi passi, l’interrogarsi dei dotti sulle questioni di ragione e di fede diveniva, in forza delle differenze sempre più marcate che dividevano platonismo e aristotelismo, presa di posizione, rivendicazione quando non vera e propria sottomissione (tanto acritica quanto orgogliosa) alle conclusioni di un maestro. Ed è principalmente questo pericolo che Bonaventura non solo denuncia, ma concretamente si sforza di scongiurare.
Scrive ancora Mauro: “San Bonaventura ha avuto il merito di porre con estrema chiarezza, e fin dalle prime opere, questo problema, delineandone le sue diverse implicazioni e fornendone una soluzione – in piena fedeltà con la tradizione speculativa precedente – che tenesse conto soprattutto della condizione dell’uomo storico, concreto, che non esaurisce la sua vicenda in questa vita, ma è chiamato da Dio a un destino di immortalità”. Fede e ragione, dunque, considerate (aritotelicamente, platonicamente e cristianamente) simboli della natura umana e della scintilla divina che la anima e che è destinata a splendere per l’eternità, sono gli estremi lungo cui si muove l’elaborazione teologico-filosofica di Bonaventura, il quale, pur senza negare che tra questi due poli esistano notevoli differenze, evita di trattarli semplicemente come opposti, costringendosi a una scelta di campo che altro non sarebbe se non miope fedeltà di dottrina. “Per Bonaventura, il sapere filosofico, quale è praticato dai pensatori pagani o dai maestri cristiani della Facoltà delle Arti, è perfettamente legittimo e gode di una sua autonomia e dignità. Egli ritiene, infatti, che sia possibile accanto ad uno «teologico» un uso «filosofico» della ragione. Teologia e filosofia si distinguono, per lui, sulla base sia del diverso metodo che esse seguono sia del diverso oggetto preso in considerazione; la prima muove dalla rivelazione e ne ricerca una certa qual comprensione, la seconda prende le mosse dai dati naturali forniti dall’esperienza e si sforza di analizzare i processi che caratterizzano la realtà mondana e di coglierne le cause. La ragione, pertanto, nel campo d’indagine di sua competenza si muove in modo pienamente autonomo e autosufficiente, né ha bisogno dell’illuminazione di «una luce più alta, quella della fede, per compiere le operazioni che le sono proprie». Anzi, Bonaventura ritiene che la ragione può prendere in esame realtà che sono propriamente oggetto della fede e pervenire ad una certa conoscenza, ancorché parziale e limitata, di esse. Ad esempio, la ragione può provare con argomentazioni necessarie l’esistenza e l’unità di Dio; tuttavia, a meno di essere illuminata dalla fede non potrà pervenire alla conoscenza di altre verità, come ad esempio del fatto che in Dio l’unità dell’essenza non esclude la pluralità delle persone”.
Filosofo cristiano, San Bonaventura da Bagnoregio (che per l’acutezza e la profondità del suo ragionare si guadagnò il nome di Dottor Serafico) accoglie in sé Aristotele e la sua sistematizzazione riuscendo a darle una precisa collocazione; nel far questo, naturalmente, egli ne indica con precisione i limiti, ne rifiuta alcune conclusioni – respinge, in particolare, la metafisica, equiparata a semplice filosofia naturale – ma nel fare tutto questo opera in favore di una sostanziale riconciliazione tra intelletto e anima. È il cielo sotto il quale gli uomini non cessano di interrogarsi e di cercare la verità, dichiara Bonaventura, a essere mutato; non è più, come lo è stato un tempo e come alcuni maestri vorrebbero illudersi che ancora sia, il cielo pagano, bensì quello cristiano nel quale risplende la bontà di Dio, e con essa la sua sapienza assoluta, che nulla rifiuta di ciò che proviene dall’uomo.
Eccovi, invece dell’incipt dell’opera, la conclusione della già citata nota introduttiva di Letterio Mauro. Buona lettura.
Bonaventura è senza dubbio consapevole dei pericoli connessi con il costituirsi di un sapere filosofico di ispirazione pagana all’interno del mondo cristiano e, proprio per questo, ritiene che vada difesa la prospettiva agostiniana di un’unica sapientia, che abbraccia insieme la fides e la ratio. Ma la fedeltà a questa prospettiva non implica la rinuncia al contributo della filosofia o il rifiuto di tener conto del progresso culturale maturato dopo l’epoca di Sant’Agostino. Si tratta dunque, per Bonaventura, di accettare la tradizione agostiniana, arricchita e rielaborata anche alla luce dei nuovi contributi speculativi, al fine di decifrare con precisione sempre maggiore quei semi sparsi di verità per mezzo dei quali Dio coopera continuamente con la creatura impegnata nell’itinerario verso di Lui. È chiaro, d’altra parte, che questi nuovi contributi speculativi acquistano, per il solo fatto di essere accolti in una prospettiva cristiana, nuovo senso e significato; facendoli propri, Bonaventura testimonia che compito del pensatore cristiano è valutare con spirito di apertura ogni sapere e, fin là dove ciò è possibile, inserirlo nel più ampio contesto teologico che, pur manifestando un sapere più alto, non mortifica o svaluta nulla di quanto costituisce il contributo più specifico della ragione umana.