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Una malattia sociale

Recensione di “L’uomo al balcone” di Maj Sjöwall e Per Wahlöö

Maj Siöwall, Per Wahlöö, L’uomo al balcone, Sellerio

Stoccolma, l’alba di un giorno qualsiasi. Lungo un copione fatto d’abitudini e ritualità, la città poco alla volta si risveglia, ricomincia a vivere. E un uomo, attento, la osserva, la studia in ogni particolare. Un uomo su un balcone. “L’uomo al balcone aveva osservato tutto ciò. Il balcone era di quelli ordinari, con la ringhiera di ferro e i lati di lamiera ondulata. Egli era rimasto con gli avambracci appoggiati alla ringhiera di ferro, e la brace della sua sigaretta era apparsa come un puntino rosso scuro nelle tenebre”.


Nelle pagine de L’uomo al balcone, incalzante thriller scritto dalla coppia Maj SjöwallPer Wahlöö (inventori del celebre commissario capo Martin Beck, protagonista di una lunga serie di romanzi), la città è la vittima, ignara e indifesa, di una sorta di febbre, di un orribile contagio che sembra coglierla d’improvviso. Tutto si origina da un acuto stridere di contrasti.

Nelle pagine iniziali gli autori descrivono fin nei più minuti particolari tutto quel che accade dinanzi agli occhi di un anonimo spettatore; egli registra ogni cosa, testimone muto tanto della normalità del quotidiano quanto di una sua anche minima deviazione – “Un’auto nera con i parafanghi bianchi, l’antenna radio sul tetto e la parola polizia stampata in grossi caratteri bianchi sulle portiere, era passata oltre, lenta e silenziosa. Cinque minuti più tardi s’era sentito il debole rumore di un vetro rotto, qualcuno con mano inguantata aveva infranto una vetrina, e subito dopo s’erano uditi i rumori di passi affrettati e di un’auto che ripartiva a tutta velocità da una strada laterale” – ma in tutto quell’affastellarsi di dettagli è proprio la figura dell’uomo a restare indistinta.

Di lui non c’è che un profilo su un balcone, e l’elenco minuzioso di ciò che fa, di come si muove, di ogni suo gesto. Finché, dinanzi al suo sguardo, non compare una bambina. È allora che l’uomo al balcone reagisce, o si prepara a farlo. “L’uomo al balcone arretrò di un passo, tolse le mani dalle tasche e rimase assolutamente immobile. Il suo sguardo era fisso sulla bambina giù in strada”. È esattamente in questo istante che l’incubo, per Stoccolma, per il commissario capo della polizia Martin Beck e per i suoi uomini, l’incubo comincia, perché in città cominciano a susseguirsi terribili omicidi a sfondo sessuale di bambine.

Nel narrare l’indagine, nel raccontare le diverse fasi della caccia all’assassino, nella costruzione delle ipotesi investigative, Sjöwall e Wahlöö si muovono all’interno dell’architettura del giallo classico; la trama del romanzo è sufficientemente articolata e complessa da coinvolgere il lettore (nel libro la squadra di Beck è impegnata in due casi che nulla hanno a che vedere l’uno con l’altro ma che a un certo punto, per un gioco del destino, si ritrovano a dipendere strettamente l’uno dall’altro) e i personaggi sono molto ben caratterizzati (tra tutti, forse è proprio Beck quello più sfumato, disegnato quasi per sottrazione, identificato da vezzi particolari, da singoli aspetti del carattere, ma proprio in forza di ciò egli finisce per risaltare con maggiore nettezza), tuttavia non sono questi gli autentici punti di forza del loro lavoro.

La scrittura semplice, aperta, quasi rassicurante (a dispetto dei temi trattati) della coppia di autori, che sono stati coppia anche nella vita, si fa in realtà portatrice di un messaggio che è tutto fuorché tranquillizzante; Beck e i suoi colleghi, infatti, non combattono semplicemente il crimine, non si limitano a perseguire chi viola le regole del vivere sociale, non agiscono in base a quanto previsto dal codice penale; la loro azione di contrasto è in realtà un tentativo di arginare qualcosa di più sottile e di decisamente più inquietante di una devianza o di una serie di devianze.

Nel loro lavoro quotidiano, assuma esso i contorni bui di un serrato inseguimento a un killer pedofilo (com’è per l’appunto il caso di Un uomo al balcone) o quelli apparentemente meno foschi e terribili della misteriosa scomparsa di qualcuno, i detective della polizia di Stoccolma toccano con mano lo sfaldarsi progressivo di un’idea di comunità, sperimentano, come medici alle prese con un’epidemia, il moltiplicarsi di un’infezione individuale e collettiva, il suo continuo crescere, il suo trasformarsi, da singola cellula tumorale, a organismo compiuto nella piena maturità delle sue metastasi, e oscuramente comprendono, pur senza arrendersi a questa paralizzante presa di coscienza, quanto il loro ruolo di custodi di un ordine che pur nel tumultuoso mutare dei tempi conserva una propria sostanziale validità, una verità che merita rispetto, somigli ogni giorno di più a una dichiarazione di resa.

Eccovi l’incipit. La traduzione, per Sellerio, è di Renato Zatti. Buona lettura.

A un quarto alle tre il sole si alzò. Un’ora e mezza prima, il traffico s’era affievolito fino a spegnersi. Contemporaneamente s’era zittito il brusio degli ultimi clienti che rincasavano dai ristoranti, le spazzatrici erano passate, lasciando qua e là delle scure strisce umide sull’asfalto.

1 commento su “Una malattia sociale”

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