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Voce narrante non protagonista

Recensione di “Quelli” di Joyce Carol Oates

Joyce Carol Oates, Quelli, Rizzoli

“Questa è un’opera storica in forma narrativa… veduta cioè in una prospettiva personale, che è poi il solo tipo di storia possibile. Negli anni 1962-1967 insegnai inglese nell’Università di Detroit, una scuola diretta dai Gesuiti e frequentata da parecchie migliaia di studenti, molti dei quali pendolari. Durante tale periodo conobbi la “Maureen Wendall” di questo racconto. Era stata mia allieva in un corso serale e, alcuni anni dopo, mi scrisse e facemmo conoscenza.

Le sue numerose difficoltà e complicazioni mi assillarono e mi affascinò la storia della sua vita come una possibile storia, attratta forse da lei a causa di certe affinità tra noi due – come ella fa rilevare in una delle sue lettere. La mia sensazione iniziale per quanto concerneva la sua vita fu: «Questa dev’essere fantasia, non è possibile che sia tutto vero!». La sensazione più definitiva fu: «Questo è il solo genere di fantasia che sia reale». E così il romanzo Quelli, che in realtà concerne ‘loro’ specifici e non è semplicemente una tecnica letteraria per riferirsi a noi tutti, si basa soprattutto sui numerosi ricordi di Maureen. Le sue osservazioni, quando era possibile, sono state incluse alla lettera nel racconto, e io devo i voluminosi particolari di questo romanzo alla terribile ossessione di lei per la propria vicenda personale”. Così Joyce Carol Oates introduce i lettori al suo romanzo intitolato Quelli, pubblicato nel 1969 e ambientato in massima parte una Detroit da incubo, lacerata dalle tensioni razziali e pronta a divorare se stessa in una rivolta (scatenatasi il 23 luglio 1967 e durata per ben quattro giorni) ricordata come una delle sommosse più sanguinose della storia degli Stati Uniti d’America.

Quelli, “opera storica in forma narrativa” secondo la definizione che ne offre l’autrice, è un lavoro di non comune complessità, oppresso da una prosa labirintica dove ogni distinzione tra il vissuto personale dei protagonisti (la famiglia nata quasi per un capriccio del caso, o per un tragico destino, da una giovane senza arte né parte di nome Loretta, ritratta al principio del libro dinanzi a uno specchio in una sera d’agosto del 1937, perdutamente “innamorata della propria immagine riflessa”) e la situazione sociale e politica è cancellata, dove tutto quel che accade alla stessa Loretta, ai suoi figli e ai suoi mariti – un esistere d’ombra che, al pari di una maledizione, si consuma in una degradante cornice di miseria materiale e morale, un vivere stentato e rabbioso battezzato nella brutalità insensata di un assassinio a sangue freddo, dall’omicidio, probabilmente compiuto dal fratello di Loretta, del suo giovanissimo amante, freddato nel letto di lei – si perde in una linea d’orizzonte mai completamente visibile nella quale nulla ha senso né significato.

Loretta, prigioniera dei suoi giorni, sposa e madre tanto per calcolo d’opportunità quanto per mancanza d’alternative (a salvarla dalle conseguenze del delitto commesso dal fratello è un suo conoscente poliziotto, cui lei si concede spinta da un confuso sentimento di gratitudine e dall’urgenza di salvarsi), trascorre i suoi anni senza mai riuscire a liberarsi della ragazza che non è mai riuscita a essere e delle sue pretese, senza mai prendere le distanze dai sogni che riempivano i suoi sedici anni e che giorno dopo giorno non cessano di circondarla, di prenderla d’assalto come Erinni urlanti pretendendo soddisfazione e colmando il suo spirito meschino di rabbiose recriminazioni; ed ecco che dal suo grembo malato, da quella sua fertilità incosciente, emergono alla luce creature quasi impossibili da definire, esseri umani incompleti, disegnati senza criterio, corpi e anime alla deriva che insistentemente cercano, in Loretta e lontano da lei, in seno a alla famiglia di cui così precariamente tiene le fila e che, per quanto percepita come estranea e sbagliata, resta pur sempre il loro punto di partenza e il loro unico approdo, un ruolo nel mondo, un perché.

Jules, l’irrequieto primogenito, dapprima tenta senza successo di abbandonarsi all’amore, alla devozione per una ragazza votata all’autodistruzione, sempre affascinato dal canto di sirena della vita criminale e dai guadagni facili che promette ma mai abbastanza coraggioso o abbastanza incosciente da decidersi per essa, e infine trova una propria, distorta dimensione esistenziale come folle ideologo di una rivoluzione permanente, di un liberatorio ritorno alla violenza dispensata per puro istinto di sopraffazione; Maureen, “voce narrante non protagonista” dell’intero romanzo, artiglia giovanissima la prostituzione (vissuta come unica possibile via di fuga da una realtà impossibile da sopportare) per poi, in seguito a un terribile pestaggio subito dal patrigno, lasciarsi andare fin quasi a perdersi del tutto e in ultimo riprendersi in nome dell’unico amore che sia possibile vivere e abbracciare: quello che fiorisce nel rispetto senza esaurirsi nel desiderio; e ancora Betty, ragazza selvaggia che rifiuta la madre e il disordine che la caratterizza a favore delle incognite così ricche di fascino e di pericolo della strada e Randolph, l’ultimo nato, bambino abbandonato a se stesso proprio come i suoi fratelli e le sue sorelle e che, al pari di loro, non avrà altra scelta che “imparare a badare a se stesso”.

Quelli è il racconto della loro odissea, una cruda cronaca di vite spese al margine della vita, un ritratto d’America di impressionante realismo, la sconvolgente fotografia in bianco e nero di una pagina di storia e di coloro che l’hanno attraversata.

Eccovi l’incipit. Buona lettura.

In una calda sera dell’agosto 1937, una ragazza innamorata si trovava in piedi davanti allo specchio. Si chiamava Loretta.

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