Recensione de “I quaranta giorni del Mussa Dagh” di Franz Werfel
22 settembre 1915, la stampa europea riceve un comunicato ufficiale francese. Vi si annuncia qualcosa di terribile, qualcosa che, al di là della felice contingenza riportata, apre uno squarcio sulla storia intesa come oscuro labirinto d’umane atrocità. «Perseguitati dai Turchi» – ecco quanto afferma il documento francese – «circa 5.000 Armeni, tra cui 3.000 donne, fanciulli e vecchi, si erano rifugiati verso la fine di luglio nel massiccio del Mussa Dagh, a nord della baia di Antiochia, dove erano riusciti fino ai primi di settembre a tener testa agli aggressori; ma da allora gli approvvigionamenti e le munizioni cominciarono a venir meno, ed essi erano sul punto di soccombere inevitabilmente, quando riuscirono a segnalare ad un incrociatore francese la loro grave situazione. Gli incrociatori della squadra francese, che facevano il blocco delle coste della Siria, recarono subito soccorso e poterono assicurare lo sgombero dei 5.000 Armeni, che vennero trasportati a Porto Said, dove ricevettero la migliore accoglienza e furono installati in un accampamento provvisorio”. Da quello che altro non è se non un asciutto resoconto dei fatti, lo spiraglio di una finestra dal quale tanto la paziente ricerca dello storico quanto la fantasia del narratore possono ricavare materiale per documentare le ferocissime repressioni messe in atto dall’esercito ottomano nei confronti della minoranza armena (la cui confessione religiosa era cristiana), che causarono un vero e proprio genocidio (si stima che i morti toccarono l’impressionante cifra di 1,5 milioni) e gli eroici atti di resistenza a questa terrificante e sistematica strategia di annientamento, lo scrittore austriaco di origine ebrea Franz Werfel ha tratto invece spunto per un’opera che contiene in sé tanto l’esattezza della ricostruzione quanto l’epica – ma più ancora la pietas – di un’avventura dello spirito dall’impronta universale ed eterna.
I quaranta giorni del Mussa Dagh, questo il lavoro, pubblicato nel 1933, che guadagnò al suo autore la fama letteraria, è molto più di un magnifico romanzo; ha l’ambizione, perfettamente riuscita, di imprimersi nella mente del lettore come memoria, come ammonimento; egli riesce a guardare al recente passato, e agli orrori che ha prodotto, come a una sorta di oscena “prova generale” di quel che il secondo conflitto mondiale, e con esso l’impressionante opera di sterminio degli ebrei messo in atto dai nazisti, sarebbe riuscito a fare su scala ancora maggiore.
Leggere I quaranta giorni del Mussa Dagh oggi ha dunque un duplice significato: lo si fa, naturalmente, nel pieno rispetto del contesto storico e politico disegnato, lo si fa imparando (e il merito è tutto della prosa di Werfel, asciutta eppure così densa d’emozione, semplice ma capace di giungere in ogni momento alla ragione ultima di quel che è accaduto, di smascherare, al di là degli odiosi sofismi della “ragione di Stato” e dell’opportunità del momento, i reali perché delle decisioni prese, di esaltare il merito senza mai trascendere, di attribuire colpe e responsabilità evitando ogni forzatura, ogni facile inciampo nell’invettiva fine a se stessa) esclusivamente quel che è accaduto, e tuttavia nello stesso tempo, proprio in virtù di quella “eternità che è sostrato ed essenza di ogni cosa che avviene” della quale Franz Werfel innerva la propria scrittura, lo si fa anche guardando alla sconfinata sofferenza che l’uomo è stato capace di dispensare all’uomo a partire proprio dall’odioso, intollerabile crimine commesso contro “la minoranza armena, peste da debellare a qualsiasi costo”.
La resistenza del Mussa Dagh, nelle splendide pagine di Franz Werfel, è raccontata come un risveglio della coscienza (individuale dapprima, nella persona del protagonista, l’armeno Gabriele Bagradiàn, uomo ricco, colto, la cui vita si è svolta in gran parte in Europa, marito di una raffinata cittadina francese, che vive il ritorno nella terra natia, figlio di un tortuoso incrocio di circostanze, come fosse una di quelle penose fantasie che assalgono gli intelletti e i cuori nel momento in cui giacciono sospesi tra il sonno e la veglia – “Gabriele […] è nato in quella casa laggiù e vi ha passato tanti mesi della sua infanzia. Fino ai dodici anni. E tuttavia quella prima vita, che un tempo fu la sua, gli si presenta di una irrealtà quasi dolorosa; somiglia ad una esistenza precedente la nascita, i cui ricordi feriscono l’anima con un brivido penoso” – e poi sempre più collettiva, finché, nel momento della decisione suprema, nel momento dell’aperta sfida lanciata alla potenza turca in nome non di una generica volontà di ribellione o dell’anelito animale alla sopravvivenza, ma del rispetto degli ideali di verità, lealtà e giustizia, così scandalosamente violati dai Turchi, si giunge al punto conclusivo del cammino, quello nel quale un popolo ritrova se stesso, torna a riconoscersi come tale.
Affresco indimenticabile, capolavoro etico prima ancora che gioiello letterario, I quaranta giorni del Mussa Dagh è un libro fondamentale, un patrimonio di tutte le generazioni che tutte le generazioni dovrebbero conoscere.
Eccovi l’incipit. La traduzione è di Cristina Baseggio. Buona lettura.
«Come sono venuto qui?». Gabriele Bagradiàn pronuncia fra sé queste parole solitarie, senza saperlo. Esse non esprimono neppure una domanda, ma qualcosa d’indistinto, uno stupore solenne, che tutto lo pervade: forse gli viene dalla luminosità mattutina della domenica di marzo, dalla primavera siriaca, che spinge le sue greggi di rossi anemoni giganti giù per i pendii del Mussa Dagh fin sulla pianura irregolare di Antiochia. Zampilla su ogni punto dei pascoli estesi il bel sangue vivido, soffocando il bianco pudico dei grossi narcisi, di cui pure è giunta la stagione.