Recensione di “L’assassino cieco” di Margaret Atwood
Una testimonianza, o una confessione, che apre le porte a un romanzo che a sua volta contiene un racconto, una storia di fantasia che due amanti, nel corso dei loro incontri clandestini, costruiscono in ogni dettaglio fino a farne il loro rifugio, la loro dimensione esclusiva. Un labirinto di parole che si rincorrono nel tempo, un mescolarsi furioso di amore e odio, verità e menzogna, pietà e ferocia, una guerra senza quartiere che non risparmia nessuno, un veleno che stilla, come un peccato originale, da una generazione alla successiva annientando ogni cosa. Un tortuoso, sofferto percorso della memoria che richiama a sé ciò che è stato in tutto il suo orrore e la sua miseria per provare a spiegare, a chi ancora avrà la forza di ascoltare, il tumore maligno di un presente incolore e morente, nel quale le sole cose che sembrano avere vita sono le ombre, fantasmi di rancori, rimorsi e rimpianti che non riescono a trovare pace.
Una saga familiare che si snoda lungo un secolo, il Novecento, colmo di tragedie, e che quel secolo goffamente emula moltiplicando nel proprio dorato microcosmo violenze e brutalità, sacrificando, in un delirio di lucida follia che non conosce rimedio, ogni salvezza, ogni speranza sull’altare della piena affermazione di sé, della vittoria completa, indubitabile, definitiva. Un sanguinoso gioco al massacro che ha l’ineluttabilità della tragedia greca, un romanzo bellissimo, straziante e coraggioso che viaggia fino al cuore di quell’enigma colmo di inquietante splendore che è la letteratura e che del respiro narrativo e dello stile si serve allo stesso tempo come di un codice segreto e della sua chiave interpretativa; questo è L’assassino cieco della canadese Margaret Atwood, vincitore nel 2000 del Booker Prize e dell’Hammett Prize.
L’autrice sceglie di raccontare alternando svariati registri: la sua prosa, che non perde mai in raffinatezza, scava nei personaggi quasi con furia, alla ricerca della loro essenza, e ne riemerge corrotta, ferita a morte; è a questo punto che trova una tregua in quella sorta di ritorno alle proprie origini che è l’atto stesso di raccontare. Multiforme prometeo letterario, la Atwood veste con identica maestria i panni della protagonista del suo lavoro, l’anziana Iris Chase, alle prese con la scrittura degli appunti di una vita, unica eredità che è ancora in grado di lasciare a una nipote che ha perduto da tempo, quelli di Laura, sorella minore di Iris, personalità sfuggente, attratta in egual modo dal mistero ultraterreno di Dio e da quello fin troppo umano delle disuguaglianze sociali, delle ingiustizie, della tirannia del ricco verso il povero, autrice di un romanzo (L’assassino cieco del titolo) la cui pubblicazione ha avuto un effetto dirompente su tutti coloro che in qualche modo hanno avuto a che fare con lei, e infine quelli di un uomo braccato, un fuggiasco, un criminale forse, o forse soltanto qualcuno che chi detiene il potere qualifica come criminale, come fuorilegge per evitare di affrontarlo sul terreno scivoloso dello scontro di idee, e che nel suo precario resistere si guadagna da vivere scrivendo racconti di fantascienza (con uno dei quali, a ogni incontro, intrattiene la sua amante dopo esserci andato a letto).
In questo suo continuo trasformarsi, in questo procedere all’apparenza sconnesso ma in realtà fluido, inarrestabile come un fiume, potente e fragoroso come una cascata, Margaret Atwood disegna un mosaico familiare lacerato dall’universalità onnipotente del dolore; dal principio alla fine del Novecento, le fortune e le disgrazie della famiglia Chase, un tempo ricchissima grazie al fiuto per gli affari del capostipite, il nonno di Iris e Laura, poi ridotta quasi in miseria dall’ostinato idealismo del padre delle due sorelle, salvato (o forse definitivamente condannato) dal matrimonio di Iris con il facoltoso industriale Richard E. Griffen, uomo ambizioso e privo di scrupoli, deciso ad affermarsi sulla scena politica e sostenuto nella sua scalata al successo dalla sorella Winifred, donna fredda e determinata, pronta a tutto pur di veder realizzati i propri piani, si delineano in destini segnati dal fallimento e dalla tragedia. E poco alla volta, come i passi obbligati dei condannati a morte, l’orizzonte svelato dalla affilatissima scrittura della Atwood diviene dono, il dono scomodo, insopportabile, della verità. “Poi ti racconterò una storia. Ti racconterò questa storia: la storia di come mai ti sarai trovata qui, seduta nella mia cucina, ad ascoltare la storia che sono stata a raccontarti. Se per qualche miracolo dovesse accadere, non ci sarebbe alcun bisogno di questo disordinato mucchio di carta. Cosa vorrò da te? Non amore: sarebbe chiedere troppo. Non perdono, che non spetta a te accordare […]. Ma lascio me stessa nelle tue mani. Quale altra scelta ho? Quando leggerai quest’ultima pagina, quello – se mai mi troverò da qualche parte – è l’unico posto in cui sarò”.
Eccovi l’incipit del romanzo. La traduzione, per Ponte Alle Grazie, è di Raffaella Belletti. Buona lettura.
Dieci giorni dopo la fine della guerra mia sorella Laura volo giù da un ponte con un’automobile. Il ponte era in riparazione: lei andò dritta contro il segnale di pericolo.
Ho appena finito di leggere L’assassino cieco di Margaret Atwood. L’ho trovato bellissimo, mi è piaciuta la storia e lo stile, il modo di esprimere riflessioni, sentimenti e stati d’animo. Una lettura densa e significativa. Grazie del suggerimento Paolo.
Ciao, Giovanna Pisano
Sono io a ringraziare te. Un caro saluto, Giovanna, a presto.