Recensione di “L’eterno filisteo” di Ödön von Horváth
“Ödön von Horváth è stato abbattuto prima di essersi raccolto per l’ultima impresa. Ma la sua opera, pur frammentaria, basta già per farci presentire che questo poeta era nato come nessun altro per donare al romanzo tedesco un’esauriente ‘Demonologia del piccolo-borghese’. Gioventù senza Dio e Un figlio del nostro tempo sarebbero forse stati i primi volumi di questa Demonologia.
Il piccolo-borghese, così come Horváth ce lo presenta, è meno il membro di una classe che l’uomo impietrito, l’uomo sordo e opaco che resiste allo spirito. Mentre l’uomo che sta all’ultimo o anche al primo gradino […] della scala sociale, si apre alla verità, l’incallito uomo medio lotta per la conservazione della menzogna, perché senza la menzogna affoga. È il luogotenente del diavolo sulla terra, è, anzi, lo stesso diavolo. In antitesi al Satana di Dostoevskij, che appare a Ivàn Karamazov, manca al diavolo di Horváth ogni sfondo spirituale romantico: è un piccolo, comune diavolo. Ma la sua capacità inventiva nel regno del malvagio-senzasenso è inesauribile. La volontà di far del male è il suo impulso determinante. Egli compie un assassinio nel momento stesso in cui pretende di piangere su un perduto amore”.
Così Franz Werfel inquadra, nella prefazione al romanzo Un figlio del nostro tempo, scritta nel giugno del 1938, poche settimane dopo la prematura scomparsa del suo autore, il senso complessivo dell’opera di Ödön von Horváth, la sua chirurgica analisi politico-sociale di una Germania smarrita, consumata dall’umiliazione per la Grande Guerra perduta, devastata da un trattato di pace che l’ha privata finanche della dignità e pronta a concedere se stessa e il proprio lacerato onore a chiunque prometta di risollevarne le sorti, costi quel che costi.
Le acute osservazioni di Werfel rimandano all’introduzione (scritta dallo stesso Horvát) a L’eterno filisteo – che assieme ai due lavori già citati esaurisce la produzione romanzesca di questo raffinato drammaturgo, che in massima parte si consacrò al teatro e alla poesia – laddove lo scrittore gioca con l’ironia, il sarcasmo e la beffa per denunciare tanto l’incombente tragedia rappresentata dal nazismo quanto le patenti responsabilità delle altre nazioni nel precipitare dell’Europa (e del mondo) verso il baratro di un nuovo e ancor più sanguinoso conflitto mondiale. Scrive infatti Ödön von Horváth: “Il filisteo è notoriamente un egoista ipocondriaco, e quindi tende dovunque ad adattarsi vilmente e a falsare ogni nuova formulazione dell’idea, appropriandosene. Se non vado errato, si è progressivamente sparsa voce che proprio in questo momento noi viviamo tra due epoche. Anche il filisteo alla vecchia maniera non merita più di essere ridicolizzato; chi ancor oggi lo deride, è tutt’al più un filisteo del futuro. Dico ‘futuro’, perché questo nuovo tipo di filisteo è ancora in divenire, e non si è ancora ben cristallizzato nella sua forma definitiva. Qui ci si propone di dare, in forma di romanzo, alcuni contributi alla biologia di questo filisteo in divenire. Naturalmente l’autore non osa sperare di potere influenzare con queste sue pagine un accadere mondiale necessario, e tuttavia…”.
E i “contributi” di Horváth lasciano senza fiato per precisione, profondità e attualità; all’opposto dell’eternità negativa del filisteo, che incarna il brutale allontanamento da ogni idealità e dalla vita dello spirito, che si traduce nella possibilità di adattarsi senza sforzo alle “verità altrui” (dello stato, della patria, dell’esercito, di qualsiasi realtà abbia capacità e forza bastanti per prendere con sé l’individuo e le sue specificità e annullarle nell’indistinzione di un tutto più grande, nella quale tutti i colori valgono il grigio) egli dapprima disegna, giocando sul filo sottilissimo dello scherzo, della commedia, l’ideale paneuropeo (sul quale, nel corso di un tragicomico “viaggio di piacere” ha modo di riflettere il signor Kobler, protagonista del romanzo, borghese assai piccolo entrato in possesso di una discreta fortuna in seguito a un raggiro felicemente concluso), poi (in Gioventù senza Dio), abbandonando decisamente i toni brillanti per il dramma, passa dallo scenario politico a quello individuale raccontando lo smarrimento di un insegnante alle prese con una generazione, quella dei suoi studenti, specchio dei “tempi nuovi”, che egli non riesce a comprendere, ma non si ferma qui, perché nella storia che racconta anche il docente, che al principio del libro sembra essere il personaggio positivo, quello con il quale più facilmente il lettore può identificarsi, non è esente da colpe, viltà e debolezze, e in questo senso esprime, come meglio non si potrebbe, l’enorme potere della propaganda, la sua capacità di arrivare dovunque, di sedurre e confondere, il suo essere in grado, allo stesso modo e con la medesima efficacia, di instillare dubbi e radicare certezze. Infine, in Un figlio del nostro tempo, dall’individuo si passa alla società, al corpo pubblico (in questo caso l’esercito), che per il soldato protagonista e voce narrante del romanzo è dapprima occasione di riscatto, poi strumento (unico possibile) per la piena realizzazione di sé e infine amara disillusione, il cui smascheramento, però, lascia l’uomo nudo, in balia di sé, ostaggio del nulla. Privato di ogni appoggio, il filisteo è costretto a misurarsi con se stesso; lungi però, dall’essere “misura di tutte le cose”, egli non è neppure capace di essere misura di ciò che è; è dunque condannato a vivere un dramma la cui gravità non sarà mai in grado di comprendere.
Narrati in prima persona (con l’eccezione di L’eterno filisteo), a sottolineare lo spaesamento irrimediabile del singolo, costretto a forza in un sistema costruito per distruggere qualsiasi possibile dissonanza, i romanzi di Ödön von Horváth, in Italia pubblicati da Bompiani in un unico volume intitolato L’eterno filisteo e tradotti da Giorgio Backaaus e Bruno Maffi, sono tesori preziosissimi, opere capaci di parlarci ancora oggi, e la cui lezione è bene continuare ad ascoltare.
Eccovi l’incipit de L’eterno filisteo. Buona lettura.
A metà settembre del 1929 il signor Alfons Kobler della Schnellingstrasse guadagnò seicento marchi. C’è molta gente che non riesce neppure a immaginare una tal somma di denaro.