Recensione di “Americanah” di Chimamanda Ngozi Adichie
“Alexa, e gli altri ospiti, e forse anche Georgina, capivano tutti la fuga dalla guerra, dal tipo di povertà che distruggeva l’animo umano, ma non avrebbero capito il bisogno di scappare dall’opprimente letargia dell’assenza di scelta. Non avrebbero capito perché persone come lui, cresciute con cibo e acqua abbondanti ma impantanate nell’insoddisfazione, abituate fin dalla nascita a guardare altrove, da sempre convinte che la vita vera fosse altrove, ora fossero decise a fare cose pericolose, illegali, come partire; nessuno di loro moriva di fame, o subiva violenze, o veniva da villaggi bruciati, ma aveva semplicemente sete di scelte, di certezze”.
Forse è proprio qui la barriera insormontabile, nella strutturale incapacità dell’Occidente, finanche il più aperto, il più evoluto, il più progressista, di comprendere su scala più vasta di quella nazionale il concetto di mobilità sociale. Quel desiderio, quel bisogno, quella necessità che a volte assume le sinistre fattezze dell’ossessione di fare qualcosa, centrare un obiettivo, realizzarsi, inseguire (e raggiungere) la vita che ci si è immaginati, quell’andare un po’ più in là di dove sono arrivati i nostri padri, e prima di loro i nostri nonni, quel superarli per poi essere applauditi proprio da coloro abbiamo lasciato indietro, che abbiamo battuto, e che per anni e anni si sono sacrificati in ogni modo possibile affinché noi potessimo fare esattamente quello: lasciarceli alle spalle, progredire, avvicinare anche di un solo gradino in più il mistero della felicità.
Quell’Occidente che ancora per troppi è terra promessa ma che, una volta afferrato, non si lascia conquistare, e reagisce, si dibatte, scalcia, urla e morde finché non riesce a tornare libero. Di questo Occidente, e del suo istintivo reagire a ogni approccio non cercato, a ogni inaspettata confidenza, racconta con rara sensibilità e una prosa di superba bellezza la scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Abichie in Americanah, opera che è allo stesso tempo romanzo e saggio, storia d’amore e dramma, riflessione politico-sociale e autobiografia. L’autrice – che si rivela nei panni della protagonista del libro, la giovane nigeriana Ifemelu, che, studentessa universitaria, lascia il proprio Paese ed emigra negli Stati Uniti d’America – sceglie di narrare seguendo il filo dei ricordi; in questo modo non solo prende le distanze da ciò che narra, contribuendo a rendere il suo racconto qualcosa di oggettivo, un fatto, un accadimento, anzi una lunga e corposa serie di fatti, ma dando anche alla sua storia un che di definitivo, l’architettura stabile e severa di un giudizio.
Ifemelu è una donna che l’America ha dapprima ignorato fino al punto da respingere e poi, in un attimo, accolto e persino premiato; ma è anche, se non soprattutto, una donna che nel Paese da cui è stata infine adottata ha scoperto di essere nera, negra, diversa, di essere nera e non americana, e in forza di questa condizione di essere qualcosa d’altro sia rispetto ai bianchi (naturalmente) sia rispetto agli americani di colore. In America Ifemelu ha scoperto la razza e tutto ciò che la parola razza, l’idea di razza, il concetto di razza, l’utilizzo del termine razza (tanto da parte di chi ne fa un’arma quanto da parte di chi nobilmente si industria a utilizzarlo come scudo) porta con sé, ed è con questa eredità, con questa ombra che malgrado i progressi fatti e gli anni trascorsi e le tante battaglie vinte (l’ultima delle quali ha avuto come posta in gioco nientemeno che la Casa Bianca, conquistata, per la prima volta nella storia degli Stati Uniti, da un uomo di colore, Barack Obama) non vuole saperne di scomparire che lei è costretta a fare i conti. Di questo suo viaggio nella “terra della razza”, o meglio delle razze, perché è questo ciò che l’America è, prima di essere la “terra dell’abbondanza e delle opportunità”, Ifemelu, e Chimamanda con lei e attraverso lei, racconta “a giochi fatti”, partendo in qualche modo dalla fine, dalla sua decisione, irrevocabile, di lasciare la sua vita americana, la sua identità americana, i suoi successi americani (un seguitissimo blog sulle questioni razziali intitolato Razzabuglio, una borsa di studio a Princeton, una relazione stabile e soddisfacente) per tornare in Nigeria.
E nel parlare di sé Ifemelu parla di tutto ciò che le ruota attorno; in primis il suo fidanzato Obinze, il grande amore della sua vita, la cui esperienza in Occidente naufraga a Londra nel peggiore dei modi, con un’espulsione preceduta addirittura da un soggiorno in prigione, poi gli uomini e le donne incontrate in America, tutti o quasi (e il più delle volte loro malgrado) fonte d’ispirazione per il suo blog, i genitori di lei e la madre di lui, sempre in qualche modo figure di riferimento per Ifemelu, forti della loro dignità di esseri umani, in ogni istante acutamente consapevoli del proprio valore come dei propri limiti, e ancora il circolo chiuso delle amiche, dei compagni d’università, naufraghi sedotti dal canto di sirena del Primo Mondo che ad alcuni ha finito per concedere i propri favori mentre ad altri ha voltato le spalle, costringendoli a un ritorno a casa nutrito dalle speranze di un colpo di fortuna (per gli uomini) e di un matrimonio, il più possibile buono (per le donne), e infine il Paese ritrovato, mai dimenticato eppure sconosciuto dopo tanti anni di lontananza, con il quale è necessario, proprio come lo sarebbe con un vecchio amico perso di vista da troppo tempo, ritrovare l’antica confidenza.
Non c’è nulla, nella prosa di Chimamanda Ngozi Abichie che suoni artificioso, costruito a tavolino, posticcio; Americanah è un libro a un tempo meraviglioso e importante tanto per l’eleganza della prosa, per la capacità dell’autrice di dar vita a un intreccio indiscutibilmente solido e in più di un momento perfino avvincente, per la costruzione dei diversi personaggi, tutti sfaccettati, complessi, specchio di un mondo e di una realtà che ostinati si sottraggono a ogni generico tentativo di spiegazione e sistematizzazione per rivendicare la propria specificità, la propria originalità (perché non c’è una ricetta che funzioni, che funzioni davvero, per affrontare il nodo del razzismo? Perché la razza non è una semplice questione di razza, perché non è biologia, ma sociologia, politica, umanesimo, o forse il suo opposto, ma in ogni caso niente che sia riassumibile in una formula, in un principio, in una “legge di gravitazione universale”), quanto perché, nello scriverlo, Chimamanda Ngozi Abichie ci ha fatto dono di sé.
Eccovi l’incipit. La traduzione, per Einaudi, è di Andrea Sirotti. Buona lettura.
Princeton, d’estate, non aveva odore, e anche se a Ifemelu piacevano la verde tranquillità dei tanti alberi, le strade pulite e i palazzi imponenti, i negozi un filo troppo cari e la quieta, persistente aria di meritata grazie, era proprio questo, l’assenza di odore, ad attirarla di più, forse perché le altre città americane che conosceva bene avevano tutte un odore ben distinto.