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Diciannove anni dopo

Recensione di “Harry Potter e la maledizione dell’erede” di J.K. Rowling, John Tiffany e Jack Thorne

J.K Rowling, John Tiffany, Jack Thorne, Harry Potter e la maledizione dell’erede, Salani

Diciannove anni dopo è come se nulla fosse cambiato: la battaglia di Hogwarts, la sconfitta e la morte di Lord Voldemort sono nella memoria di tutti, sono il passato, eppure è come se da quel momento ogni cosa fosse rimasta sospesa, congelata in un presente d’ombra permea di sé ogni cosa. Diciannove anni dopo lo scontro finale tra l’oscurità e la luce, Harry Potter, marito, padre e Direttore dell’Ufficio dell’Ufficio Applicazione della Legge sulla Magia, è ancora lo studente smarrito e nonostante ciò pieno di determinazione e coraggio che si aggirava per i corridoi del castello di Hogwarts, sorvegliato e protetto dalla saggezza e dagli incantesimi del preside Albus Silente e spalleggiato dai suoi inseparabili compagni, Hermione Granger, diventata Ministro della Magia, e Ron Weasley, spensierato, ingenuo e brillante titolare del negozio Tiri Vispi Weasley nonché innamoratissimo consorte di Hermione. Il tempo, insomma, sembra essersi fermato, malgrado ora a studiare a Hogwarts non ci siano più né Harry, né Hermione, né Ron e neppure il loro avversario Draco Malfoy ma i loro figli, ed è da qui, da questo imperscrutabile scorrere d’anni, da questo incessante avanzare delle stagioni che, come uno scherzo beffardo, si tramuta di continuo in una sterile e sfiancante marcia sul posto, che prende le mosse Harry Potter e la maledizione dell’erede, opera teatrale cupa, deliziosa e travolgente scritta, oltre che dalla creatrice di Harry Potter e del suo mondo, J.K. Rowling, da John Tiffany e Jack Thorne.

Lungo il perimetro del tempo (chiave di lettura del lavoro), gli eroi della saga – tutti, nessuno escluso – tornano protagonisti; anche se a dominare la scena, più che la pura azione, sono i sentimenti (l’amaro ricordo di ciò che è stato, degli amici perduti nella lotta contro il male, il dolore lancinante che ancora provoca in Harry Potter la fine del giovane Cedric Diggory, vittima del caso e della spietata sete di sangue di Colui-Che-Non-Deve-Essere-Nominato, l’incapacità dei padri di comprendere i figli e la cecità di questi verso coloro che non desiderano altro che il loro bene e la loro salvezza, le relazioni d’amore che, per quanto forti, rischiano di non reggere l’urto dei tormenti personali, l’impatto di quella sofferenza così profonda e cruda da non poter essere spiegata ma soltanto vissuta, sopportata, e infine il bisogno, il bisogno quasi fisico, di mollare la presa, di smettere di resistere, di lasciare che la marea investa ogni cosa, e ogni cosa trascini con sé nel suo cieco cammino di distruzione, quell’impulso così seducente e maligno che suggerisce di arrendersi, finalmente, di lasciare a che a trionfare siano le difficoltà…), gli autori riescono a dar vita a un meccanismo narrativo perfetto, a una storia che si legge d’un fiato, dove, come in una lanterna magica, tutto trascolora nel suo opposto per poi far ritorno alla propria natura. Così, alla commedia fa seguito il dramma e a esso si sovrappone la tragedia; poi è la speranza a farsi avanti, subito sopraffatta dalla più cupa disperazione; ma proprio quando la peggiore delle sconfitte sembra conquistare il campo e sbaragliare tutti i rivali, ecco farsi avanti un lampo d’opportunità, l’occasione per cambiare ancora una volta le carte in tavola.

Gli autori di Harry Potter e la maledizione dell’erede hanno il grande merito di aver compreso che l’universo del mago di Hogwarts è qualcosa di indivisibile; nell’offrire ai lettori un nuovo biglietto di viaggio nel meraviglioso e nell’inaspettato, nell’accompagnarli al binario nove e tre quarti (non a caso, è proprio da lì che questa nuova avventura prende le mosse), essi fanno rivivere ogni angolo di quel mondo, trasformandolo in un palcoscenico dove ognuno ha il suo spazio, uno spazio che è in ideale linea di continuità non solo con quanto accaduto nei libri di J.K. Rowling ma anche con i personaggi così come ci siamo abituati a conoscerli, ad amarli, a odiarli, finanche a detestarli. Diciannove anni dopo, dunque, si torna a Harry Potter con la stessa naturalezza con la quale si spalanca una finestra per godere di un panorama noto ma della cui bellezza non riusciamo a saziarci. E questa, a ben pensarci, si può ben considerare una specie di magia, forse la sola concessa a noi babbani.

Eccovi l’incipit dell’opera. La traduzione, per Salani, è di Luigi Spagnol. Buona lettura.

Una stazione affollata, piena di gente che cerca di andare da qualche parte. Nel trambusto, due grandi gabbie che sferragliano in cima a due carrelli pieni di bagagli. I carrelli sono spinti da due ragazzi: James e Albus Potter. La loro madre, Ginny, li segue. Un uomo di trentasette anni, Harry, porta la figlia Lily in spalla.

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