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Non avrò altro Dio all’infuori di me

Recensione di “Battuta di caccia” di Jussi Adler-Olsen

Jussi Adler-Olsen, Battuta di caccia, Marsilio

La violenza come puro atto di sopraffazione, come legittimazione del più forte, come diritto e insieme come aperta rivendicazione di una libertà assoluta; l’aggressione come sfrenatezza, come rito orgiastico, come delirio di onnipotenza, come lucida, terrificante allucinazione.

E assieme a tutto questo l’omicidio, l’annientamento gustato come sanzione finale, come sigillo, come l’ultimo tassello di un puzzle composto di momenti decisivi, di attimi colti al momento giusto e vissuti, sfruttati, goduti fino in fondo, nella spietata certezza che non esista prezzo di pagare per chiunque abbia il coraggio necessario a non porsi limiti, che non possa esserci punizione possibile per tutti coloro che riconoscano di non avere altro Dio all’infuori di sé.

Lungo queste spaventose coordinate, che la pazzia, la psicosi, l’alienazione mentale spiegano soltanto in parte e che, seppur non in misura così estrema, sembrano quasi “categorie di pensiero e d’azione” indotte da un mondo e da una realtà che si ostinano a vedere nel successo e a ogni costo e nell’autoaffermazione non solo e non tanto valori da difendere ma addirittura principi primi da insegnare, si snoda il coinvolgente romanzo giallo Battuta di caccia, scritto da Jussi Adler-Olsen (in Italia pubblicato Marsilio nella traduzione di Maria Valentina D’Avino).

Fedele alle regole del thriller classico e allo stesso tempo originale innovatore del genere, Adler-Olsen rinuncia al principale cardine narrativo – l’indagine finalizzata alla scoperta del colpevole; fin dall’inizio del romanzo il lettore conosce l’identità dei responsabili – per concentrarsi sulla costruzione dei personaggi principali del suo lavoro (un gruppo di ricchissime persone appartenenti all’alta società danese), cui contrappone l’ostinazione, la determinazione e il senso di giustizia del detective Carl Mørck, capo della Sezione Q della polizia di Copenaghen, piccolo dipartimento incaricato di occuparsi dei “casi di speciale interesse”, cioè di tutti quei fatti di sangue che non solo non sono stati risolti, ma che per le loro caratteristiche hanno destato particolare scalpore nell’opinione pubblica o hanno avuto, al di là del delitto o dei delitti commessi, conseguenze tragiche.

Ed è appunto di fronte a un evento del genere che si ritrovano Mørck e i suoi aiutanti quando il fascicolo di un caso aperto e chiuso una ventina d’anni prima riguardante il brutale, raccapricciante omicidio di due ragazzi, archiviato con una confessione tardiva poco convincente e una condanna che ha lasciato più di un dubbio e che ha portato al tragico suicidio del padre delle vittime (agente di polizia) e condotto alla follia la madre, finisce sulla scrivania della Sezione Q reclamando attenzione. Basta poco all’esperto Carl Mørck per capire che qualcosa, in quella verità documentale, non quadra; così, malgrado quel caso sia formalmente risolto, egli decide di rimetterci mano, di riprendere a investigare: a questo punto l’intreccio prende vita, rivelandosi in tutta la sua drammatica complessità. In un alternarsi di salti temporali che sono di volta in volta memoria degli uomini coinvolti nell’inchiesta, evidenze e riscontri dell’investigazione, che tassello dopo tassello ricostruisce un passato d’incubo che, senza apparente soluzione di continuità, si ripete nel presente mutato nelle circostanze ma non nella sua bestiale essenza, e fiammeggiante urgenza di vendetta di una donna mutilata nel corpo e nello spirito, una donna che in un tempo per lei lontanissimo è stata il membro più carismatico, sensuale e crudele del manipolo di criminali che Mørck ha deciso di inchiodare alle proprie responsabilità e che ora ha un unico scopo, distruggere una volta per sempre il mostro che ha contributo a creare e da cui è stata consumata fin quasi a morirne, prende consistenza un quadro d’incubo, un girone infernale d’orrori studiati e inflitti al solo scopo di celebrare una folle idea di superuomo, l’incarnazione di una sorta di ripugnante divinità terrena leale e obbediente unicamente al proprio arbitrio.

La verità, nella prosa limpida di Jussi Adler-Olsen, non è un risarcimento, ma solo (e solo nel caso in cui le cose vadano per il verso giusto) una parziale consolazione che potremmo trovare alla fine del cammino; l’autore, dunque, rinuncia al consolatorio potere della riparazione dei torti (anche parziale) per lasciare che la narrazione fluisca in modo “naturale” dalle premesse costruite; egli cerca di dare al romanzo la forma razionale e fredda della cronaca; sceglie la pulizia e la chiarezza espositiva invece dell’eleganza, prende le mosse dai fatti, e da coloro che li compiono, per poi quasi farsi da parte e permettere che le conseguenze procedano in modo quasi meccanico, come in un rapporto di causa-effetto, dalle premesse. Il risultato di questo modo procedere è tanto efficace quanto disturbante; una storia che ha il respiro e il ritmo del romanzo, che si legge d’un fiato ma che, proprio come un caso reale raccontato sul giornale o in televisione, non offre quasi mai appigli, salvezza, occasioni di speranza. La lotta di Carl Mørck ha il sapore amaro di un risveglio donchisciottesco.

Eccovi l’incipit. Buona lettura.

Un altro sparo rimbombò sopra le cime degli alberi. Ora le grida dei battitori erano molto più nitide. Il sangue premeva contro le tempie e il petto si spaccava per l’aria umida risucchiata con violenza nei polmoni, sempre più forte.

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