Recensione di “La scuola cattolica” di Edoardo Albinati
San Felice Circeo, 29-30 settembre 1975. Due ragazze, una di diciannove, l’altra di diciassette anni, vengono sequestrate da tre giovani poco più che ventenni, tutti di buona famiglia, e ripetutamente seviziate. Una di loro muore in seguito alle violenze subite, l’altra miracolosamente sopravvive, riesce a chiedere aiuto, si salva e contribuisce all’immediata cattura di due dei responsabili; il terzo riuscirà a fuggire.
Questi, in estrema sintesi, i fatti, così come si sono svolti e la cronaca, gli articoli di giornale e infine gli atti del processo a carico dei colpevoli li hanno restituiti alla pubblica opinione. E questo, dilatato a dismisura, aggirato, assediato, analizzato, scomposto, ignorato a bella posta per centinaia e centinaia di pagine e improvvisamente ripreso e messo al messo al centro di tutto, di ogni parola, di ogni riflessione, e ancora ripetuto infinitamente, come fosse la medesima scena di un film di continuo riproposta, o magari un intero film composto di un’unica scena, travestito da dilemma filosofico, mescolato a memorie personali, a confessioni, colorato di istanze politiche e problemi sociali, sezionato e studiato come un corpo nelle mani di un patologo, guardato al microscopio per individuarne l’infinitamente piccolo che lo compone e poi osservato con il telescopio, come una stella posta a siderale distanza, esattamente questo, l’evento terrificante, imprevedibile (o forse fin troppo prevedibile) che ha sconvolto un Paese intero rendendo manifesta a tutti una verità, una realtà che ci si era illusi bastasse tacere perché non si manifestasse, e cioè che l’orrore alberga ovunque, e che basta un nonnulla, un semplice concorso di circostanze favorevoli, o anche soltanto il naturale trascorrere del tempo, il suo maturare, perché si dia, si faccia, letteralmente, carne e sangue, è, o dovrebbe essere, l’argomento attorno a cui è costruito La scuola cattolica, monumentale lavoro di Edoardo Albinati, Premio Strega 2016.
Romanzo è scritto subito dopo il titolo e in più di un’occasione, leggendo le quasi 1.300 pagine che compongono il libro, viene spontaneo chiedersi se davvero di romanzo si tratti. Dal punto di vista squisitamente letterario, e dunque nelle scelte linguistiche, nell’ambientazione, nella costruzione dei personaggi e nel fluire della storia (ma esiste una storia qui? E se esiste, di che storia si tratta?), La scuola cattolica non può dirsi romanzo. Il suo autore, qui, non veste mai i panni del romanziere, non racconta, non narra, non si lascia mai andare al puro piacere della parola, rifiuta tanto l’incanto primigenio del suono quanto la potenza complessiva dell’insieme. Albinati non sembra scrivere per essere letto ma per rispondere a un bisogno, a una necessità, a un’urgenza. Il suo è un libro personale, intimo, un diario dal sapore ottocentesco, qualcosa cui egli si è accinto per sé solo, in obbedienza a una tensione interiore.
Perché dunque La scuola cattolica, presentata come un romanzo, è giunta al lettore? Cosa c’è in quello scrivere fitto, torrenziale, e così innocente nella sua verità, nella sua autenticità, da essere perfino fastidioso, irritante, importuno, che possa interessare il lettore? Rispondere nulla parrebbe ingeneroso ma non del tutto sbagliato, perché è come se niente oltre la vita di Albinati, cui capitò in sorte di essere compagno di scuola (di una scuola privata, di una scuola cattolica) dei maniaci assassini del Circeo (tutto qui? È davvero tutto qui il fil rouge? È solo per questo che Albinati ha deciso di scrivere un’opera di proporzioni così colossali?) emerga dalla mole de La scuola cattolica.
Albinati, dunque, la sua giovinezza, i suoi studi, i suoi amori, la famiglia, gli amici, la morte e il suo fiato che lo hanno sfiorato (come del resto hanno sfiorato tutti gli altri studenti di quel severo istituto, e gli abitanti del quartiere in cui i torturatori abitavano, e dove naturalmente anche l’autore risiedeva, e in buona misura il resto d’Italia). Eppure è solo prendendo le mosse da questo materiale a prima vista così povero, così comune, così insignificante che si può comprendere l’importanza del lavoro di Edoardo Albinati; è solo seguendo la sua vita così come lui ha scelto di esporla – attraverso scarti temporali, vicende talmente private da suscitare imbarazzo in chi si ritrova costretto a leggerle, a scoprirle, a farle in qualche modo sue, note di carattere storico, citazioni letterarie, poetiche, filosofiche, appunti, investigazioni, inchieste giornalistiche, interviste, divagazioni nel mito, nelle arti, dettagliate narrazioni di drammi familiari… – che ci si trova di fronte a un uomo e a uno scrittore che ha provato, con una radicalità che non può non lasciare stupefatti, a incarnare la lezione del sofista Protagora, a essere misura di tutte le cose, di quelle che sono in quanto sono e di quelle che non sono in quanto non sono.
Così, l’Albinati studente che misura con scherno la sapienza greca riassunta nelle sentenze parmenidee sull’essere ritenendole poco più che insulse banalità del tutto inutili (a che serve, nella vita, nella vita di tutti i giorni, ripetersi che l’essere è e il non essere non è?) è specchio di un sentire che è stato di ognuno di noi e che ancora respira in chi oggi siede sui banchi di un liceo (se non in tutti nella maggior parte); allo stesso modo, l’Albinati che riflette sul sesso come pulsione di morte, sul concetto di penetrazione come violenza primaria, sul rapporto uomo-donna inteso come guerra senza quartiere che non potrà avere fine finché uno dei due generi non deciderà di rinunciare definitivamente all’altro votandosi alla disumanità (dunque replicando, in maniera finalmente perfetta, quel che il clero cerca senza successo di fare da migliaia di anni, ottenendo come unico risultato minori violati, gravidanze indesiderate e infinite teorie di scandali); l’Albinati che, uomo, scrive a più riprese che tutte le donne sono troie, accettando di dire ciò che ciascuno pensa, accettando di essere, pagina dopo pagina, ogni uomo che, almeno una volta nella sua vita ha dato della troia alla moglie, alla fidanzata, a una sconosciuta intendendo qualificarla come stronza, egoista, traditrice, insensibile, sfiora la coscienza di un popolo, forse addirittura quella di un genere; ed è da quella coscienza universale che stilla le sue esperienze di singolo, di persona unica, proponendo in tal modo ai lettori nient’altro che una testimonianza tra le molteplici testimonianze possibili.
Eccoci perciò di fronte al paradosso di un’autobiografia nella quale a essere annullata è proprio la figura del narratore, che fin dal principio scompare a beneficio di una collettività che viene costretta a guardarsi per ciò che è, a fare i conti con l’oscurità che le abita nelle viscere e nel cuore (e di cui il delitto del Circeo non è che una manifestazione), e che si ritrova in torrenti di spiegazioni, di ipotesi, di chiavi di lettura macinate da una prosa per larghi tratti incolore, fuori fuoco, che non concede mai quello che sembrerebbe offrire (l’autore non edulcora quasi mai; il suo racconto non manca di violenza laddove ciò che riporta è violento, e non manca d’essere esplicito fino alla brutalità quando l’argomento principale è il sesso, il sesso agito, eppure mai una volta la sua scrittura colpisce al cuore; non ci si eccita leggendo di persone che fanno l’amore, né sentiamo stringersi lo stomaco quando nel libro si parla di quel che accadde tra il 20 e il 30 settembre del 1975; Albinati registra, con freddezza, puntualità, precisione; registra, ma non partecipa, né come uomo né come scrittore; a lui non interessa che la verità, tutto il resto è materia dei romanzi).
Che fare allora con le 1293 pagine de La scuola cattolica? Leggerle, mi permetto di rispondere, immergercisi, lasciarsi soffocare, accettare il guanto di sfida lanciato dal suo autore e cercarsi, ritrovarsi nei colpi di maglio della sua (e della nostra) innocenza infranta.
Eccovi l’incipit. Buona lettura.
Fu Arbus ad aprirmi gli occhi. Non che prima li tenessi chiusi, ma di quello che i miei occhi vedevano non potevo essere affatto sicuro, forse erano immagini proiettate per illudermi o rassicurarmi, e io non ero capace di nutrire dubbi sullo spettacolo che mi veniva offerto ogni giorno e che viene chiamato vita.
gasatissimo, belloccione e supervanesio.
Albinati mi ha fatto orrore con questo flippone.
Per quanto in disaccordo, comprendo il tuo giudizio. Non si può negare che il lavoro di Albinati qualche difetto lo abbia.