Recensione di “Il complotto contro l’America” di Philip Roth
Un tradimento epocale, qualcosa di così sconvolgente e inaspettato da far svanire ogni certezza, da trasformare, nello spazio di un istante, un intera nazione e tutti i valori sui quali si fonda (e sui quali poggiano le vite dei suoi cittadini) nel suo tragico contraltare. Una coscienza collettiva che d’improvviso giunge all’inimmaginabile e sabota se stessa per abbracciare l’ignoto, per gettarsi fiduciosa in un baratro di parole d’ordine tanto semplici quanto del tutto prive di senso: “Votate per Lindbergh o votate per la guerra”.
È il 1940, l’Europa brucia sotto il fuoco della terrificante potenza bellica nazista, gli ebrei del Vecchio Continente, a decine di migliaia, cadono vittime della follia sterminatrice di Adolf Hitler, e negli Stati Uniti il nuovo campione dell’isolazionismo e della neutralità a tutti i costi, l’eroe dell’aria Charles Augustus Lindbergh, candidato del Partito Repubblicano alla Casa Bianca, sconfigge il Presidente in carica, il democratico Franklin Delano Roosevelt e inaugura una nuova stagione per il Paese, una stagione segnata da rapporti più che cordiali con la Germania del “Reich millenario” e da un trasparente appoggio ideologico tanto alla sua immediata politica d’aggressione quanto al suo piano di sterminio razziale, parte di un più ampio disegno globale volto a stroncare la “perniciosa influenza ebraica” in ogni campo dell’umano vivere e sapere, influenza che, a parere dello stesso Lindbergh, del suo vice Burton Kendall Wheeler, anche nei democraticissimi e tolleranti Stati Uniti ha ormai preso fin troppo piede e va arginata, fermata, o meglio stroncata del tutto, sradicata.
Un tradimento dunque, o forse un complotto, qualcosa di oscuro e incomprensibile ma nello stesso tempo così concreto, così presente, così reale da gettare dapprima nello sconforto e in seguito nel panico la grande maggioranza degli ebrei d’America (americani in tutto e per tutto uguali alle centinaia di milioni di loro concittadini appartenenti ad altre fedi religiose), un mistero le cui nefaste conseguenze, poco alla volta ma inesorabilmente, avvelenano ogni angolo dei quarantotto Stati dell’Unione fino a portare il Paese a sfiorare dapprima una sorta di squilibrata guerra civile – che in realtà si sviluppa come un incendiario insieme di violentissime rappresaglie, una serie di “repliche in lingua inglese” della nefanda Kristallnacht tedesca del 1938 – su base razziale e poi una vera e propria deriva dittatoriale, è ciò che Philip Roth descrive, narrandolo dal punto di vista di una famiglia ebraica di Newark (la sua, la famiglia Roth), e più specificamente da quella del membro più giovane di quel nucleo (che si è sempre pensato uguale a tutti gli altri nuclei familiari d’America), lui stesso, un bambino di sette anni di nome Philip, nel suo intenso, travolgente romanzo intitolato Il complotto contro l’America.
E così il suo romanzo, che racconta un passato prossimo alternativo rispetto a quello che è davvero accaduto del tutto plausibile perché basato non solo sulle figure protagoniste di quegli anni drammatici e cruciali e su intrecci che non si sono verificati per una semplice casualità (Lindbergh, nel 1939, venne davvero invitato a candidarsi alla presidenza ma preferì rifiutare; America First, movimento fondato nel 1940 per promuovere l’isolazionismo del Paese e contrastare Roosevelt ebbe proprio in Charles Lindbergh uno dei suoi uomini più rappresentativi e se non spadroneggiò, come succede nel romanzo di Roth, spargendo a piene mani, nascosto nella sua vuota retorica pacifista, il veleno antisemita, fu solo perché l’attacco giapponese a Pearl Harbor ne stroncò una volta per tutte la voce e la forza, il giornalista Walter Winchell attaccò duramente e a più riprese Lindbergh per le sue posizioni chiaramente antiebraiche anche se non si candidò mai, come invece accade nella finzione letteraria rothiana, per la presidenza) ma soprattutto su una storia familiare personale, dove è sempre estremamente sfumata la linea di demarcazione tra ciò che è effettivamente stato e ciò che potrebbe essere accaduto, non è tanto un’ennesima distopia da incorniciare (per la luminosità della prosa, la solidità della trama, il crescendo della tensione, le soluzioni adottate per sciogliere l’intreccio una volta raggiunto l’acme, l’attenta costruzione dei personaggi) per rendere ancora più bella ed esaltante la già ricchissima galleria di questo fortunato genere letterario, quanto una riflessione acuta e disturbante sullo sradicamento, sulla potenziale fragilità di ogni norma, regola, codice e valore, sul pericolo, sempre incombente, di un sonno (non importa se interessato o semplicemente stupido, ingenuo) delle coscienze e di uno sciopero degli intelletti e dei cuori.
Leggendo Il complotto contro l’America e immaginando reale l’incubo descritto in quelle pagine, viene in mente l’esortazione di Karl Popper che è anche la chiava di lettura della sua opera più celebre, La società aperta e i suoi nemici (se vi interessa la recensione la trovate qui): il prezzo della libertà è l’eterna vigilanza. Quella vigilanza che l’accecante ascesa di Lindbergh ha, nel romanzo di Roth, interrotto e che è tragicamente venuta meno tutte le volte in cui distopia e storia sono state, l’una per l’altra, sinonimi.
Eccovi l’incipit del romanzo. La traduzione, per Einaudi, è di Vincenzo Mantovani. Buona lettura.
La paura domina questi ricordi, un’eterna paura. Certo, nessuna infanzia è priva di terrori, eppure mi domando se da ragazzo avrei avuto meno paura se Lindbergh non fosse diventato presidente o se io stesso non fossi stato di origine ebraica.
L’ha ribloggato su l'eta' della innocenza.