Recensione di “Rayuela – Il gioco del mondo” di Julio Cortázar
“A modo suo questo libro è molti libri, ma soprattutto è due libri. Il primo, lo si legge come abitualmente si leggono i libri, e finisce con il capitolo 56 e alla pagina dove tre evidentissimi asterischi equivalgono alla parola Fine. Conseguentemente il lettore potrà prescindere senza rimorsi di coscienza da quel che segue. Il secondo, lo si legge cominciando dal capitolo 73 e seguendo l’ordine indicato a piè pagina d’ogni capitolo”.
Al principio del suo romanzo più noto e discusso, Rayuela – Il gioco del mondo, Julio Cortázar offre al lettore qualcosa di simile a una bussola, uno strumento utile a orientarsi nel labirinto delle sue pagine, suggerendogli nel medesimo tempo di ignorare entrambe le alternative proposte e di procedere secondo un estro personalissimo, lasciandosi trascinare da un’intuizione, per esempio, oppure abbandonandosi al caso, a una lettura che abbia come unico criterio il più assoluto disordine, che sia essenzialmente arbitrio. Soltanto in questo modo, infatti, Rayuela, che “è molti libri, ma soprattutto è due libri”, può essere letto (ed esplorato, scoperto, reinventato persino); soltanto in questo modo, con Rayuela – che nel suo essere romanzo, nel suo narrare, nel suo avanzare sinuoso e ipnotico continuamente si sporge oltre il linguaggio, oltre sé, continuamente insegue quella realtà che riposa dentro il reale e che del reale è l’ombra, il sogno, il senso ultimo, o forse solo un senso, un possibile senso che aiuti a comprendere l’assenza di senso di ogni giorno, di ogni veglia, di ogni fatto, di tutto ciò che si può considerare oggetto di conoscenza – è possibile immedesimarsi, rivedersi nei suoi personaggi, sentire, nelle loro parole, la nostra voce.
Allora ecco che Rayuela, o meglio “il gioco del mondo”, quell’antichissimo rito dell’uomo bambino che riduce la complessità di ciò che è a uno schema, che collega cielo e terra, che permette a tutti di raggiungere le stelle semplicemente tirando un sassolino e avanzando in equilibrio, saltellando lungo il preciso perimetro della libertà, del desiderio, delle possibilità illimitate della fantasia, della gioia, della vita, è, per chi scrive come per chi legge, la tragicomica, clandestina storia d’amore tra un argentino perdutosi (o forse ritrovatosi) a Parigi e una donna soprannominata la Maga, madre, amante, signora di tutte le emozioni, custode di indicibili dolori, laica sacerdotessa del puro amore, della devozione e della bellezza, primordiale elemento dinanzi al quale ogni altra forza cede. E di questa storia d’amore è il fallimento terribile, è la morte inspiegabile di un figlio venuto chissà da dove e per opera di chissà chi, e perduto senza colpa; e tra questi estremi è il torrenziale discorrere di un gruppo di amici riuniti nel Club del Serpente, è l’alfa e l’omega della musica jazz che si ode ovunque e che sarebbe così bello se fosse la voce di Dio, è la danza di corteggiamento di due senzatetto che si cercano a un passo dalla Senna, affondati in strati e strati di abiti lerci ma ancora abbastanza uomini, abbastanza persone da comprendersi, cercarsi, bramarsi, e da sopportare, in nome di quel che provano, la brutalità ignorante dei poliziotti, chiamati a difendere il decoro della città. Ed è il ritorno coatto dell’argentino a Buenos Aires, al suo luogo di elezione, che egli non riconosce e dal quale non è riconosciuto, che ripaga indifferenza con indifferenza e che assiste muto ai suoi rimorsi, al pensiero ossessivo della donna perduta, all’impossibile reincarnarsi di lei in un’altra, forse in qualsiasi altra.
Romanzo, iperromanzo, ultraromanzo, metaromanzo, narrazione che, in cerca di una lingua che non sia eredità di secoli, patrimonio di una cultura, di una civiltà, promessa (o più probabilmente minaccia) di un futuro già accaduto, erode il linguaggio fin quasi ad arrivare a negare se stessa, Rayuela, nella sua dichiarata rinuncia a qualsiasi possibile punto di riferimento, consente (ma sarebbe più esatto dire sprona) una lettura che non ha eguali, che si perde in qualcosa di indefinibile, una creatura d’inchiostro e sangue che da un attimo con l’altro muta da aneddoto a saggio, da parentesi comica a disputa metafisica, che si fa lanterna magica satura d’immagini tra loro così differenti da risultare opposte, inconciliabili, e nello stesso tempo così necessarie l’una alle altre come lo sono le tessere di un puzzle. In questo suo cambiare, travestirsi, nascondersi e riapparire Rayuela giunge a invertire la polarità lettura-scrittura e a concepire una sorta di identità tra autore e lettori; materia immaginata da Cortázar e destinata a essere qualsiasi cosa, Rayuela è un romanzo in potenza, la cui forma, mai definitiva, viene decisa dal lettore. Da ogni lettore a ogni nuova lettura.
Eccovi l’incipit. La traduzione, per Einaudi, è di Flaviarosa Nicoletti Rossini.
Avrei incontrato la Maga? Tante volte mi era bastato affacciarmi, arrivando da rue de Seine, all’arco che dà sul quai de Conti, e appena la luce di cenere e di olivo sospesa sul fiume mi lasciava distinguere le forme, subito la sua figurina sottile si disegnava sul Pont des Arts, qualche volta muovendosi da una parte all’altra, qualche altra ferma contro la ringhiera di ferro, china sull’acqua.