Recensione di “Lonesome Dove” di Larry McMurtry
La natura è un dio immanente, capace di colmare gli occhi degli uomini di indicibile meraviglia e di flagellarne le membra e spezzarne lo spirito con la furia delle tempeste, la calura soffocante e implacabile, i morsi rabbiosi del gelo, l’astuzia predatoria degli animali selvaggi. Burattini su un palcoscenico sconfinato fatto soltanto di cielo e di orizzonti che costringono lo sguardo ad arrancare lungo una vertigine d’assenza, gli uomini, sconsiderati figli del respiro del vento e di una terra muta che è polvere ed erba, attraversano gli anni al riparo delle rozze consuetudini dell’amicizia virile, nello spontaneo affratellarsi figlio della guerra, nell’affetto incrollabile e primitivo che unisce l’animale al suo padrone rendendoli una cosa sola di fronte alle fortune e alla disgrazie e nell’inafferrabilità dell’amore, le cui segrete vie sono cammino d’esaltazione o dura marcia di sofferenza, spesso entrambe le cose. Questo sussurro d’esistere, fragilissimo eppure perseverante, capace di insospettabile forza, forma lo splendido, indimenticabile tessuto narrativo di Losenome Dove, romanzo-capolavoro di Larry McMurtry. Siamo nell’Ovest americano nella seconda metà del XIX secolo, un’alba del mondo che nella sua sovrumana implacabilità osserva il dissolversi crudele della nazione indiana; le tribù decimate nelle sanguinose battaglie con soldati e ranger, distrutte dalle malattie, sperdute in immensità dove un tempo pascolavano centinaia di migliaia di bisonti, sterminati dalla folle avidità dei cacciatori bianchi. Un sorgere inarrestabile che somiglia a quello del sole, e con la medesima luce illumina devastazioni e i cambiamenti; le città dei bianchi malandate e sporche, ricettacolo di gioco d’azzardo e prostituzione che tuttavia non smettono di comparire, il coraggio stolido, o forse soltanto disperato, dei coloni che si avventurano in luoghi inesplorati in cerca di un angolo per sé, di qualcosa che assomigli a un futuro, il riposo nervoso di chi sa soltanto combattere e non trova requie, se non per brevi momenti, nell’amplificata quiete del mondo lasciato a se stesso.
Ed è un viluppo di esistenze quello che, con prosa di ipnotica bellezza, capace tanto di scavare nei cuori delle persone e di esplorarne il tumultuoso pulsare di sentimenti ed emozioni, quanto di restituire intatta la miracolosa perfezione della terra, di tradurre in parole il suo irraggiungibile linguaggio di luce e ombra, di furore e pace – “A est, il cielo era rosso come le braci di una fucina e illuminava le terre basse lungo il fiume. La rugiada aveva bagnato i milioni di aghi del chaparral e, quando l’orlo del sole spuntò all’orizzonte, il chaparral sembrò tempestato di diamanti. Nel cortile un cespuglio si riempì di piccoli arcobaleni […]. Il toro avanzò di qualche passo al trotto e si fermò di nuovo. Non era a più di trenta o quaranta metri dall’orso, che si lasciò cadere sulle quattro zampe e lo fissò. Poi emise un aspro ruglio gutturale che fece sparpagliare un centinaio di bovini. Indietreggiarono un poco e si fermarono a guardare. Il toro muggì e un lungo filo di bava gli piovve sul dorso. Era furioso. Raspò di nuovo il terreno, abbassò la testa e caricò l’orso. Con immenso stupore di tutti quelli che lo videro, l’orso sbatté a terra il toro. Si rizzò sulle zampe posteriori e gli diede una zampata che lo fece capitombolare. Il toro si rialzò subito e lo caricò nuovamente: questa volta l’orso lo scorticò, o quasi. Gli ghermì la spalla e gli strappò dal dorso un lembo di pelle che sventolò come una cappa, ma il toro riuscì comunque a gettarglisi contro e a piantargli un corno nel fianco. L’orso bramì e gli ficcò i denti nel collo, ma il toro si muoveva ancora e ben presto orso e toro si rotolarono nella polvere, tra mugghi e bramiti così forti che i bovini infine si spaventarono e si diedero alla fuga […]. Poi tutto finì. Gli uomini si aspettavano di vedere a terra il toro, ma il toro non era a terra. E non lo era neppure l’orso. Si separarono e si girarono intorno nella polvere” – McMurtry forgia in odissea. Un’odissea eroica e tragica che ha inizio quando i due principali protagonisti del romanzo, gli ex capitani dei Ranger del Texas Augustus McCrae e Woodrow Call, diventati commercianti di bestiame dopo la fine delle ostilità con i pellerossa, vengono convinti da un loro amico, il perdigiorno Jake Spoon, a radunare una mandria e ad andare fin nel Montana, terra libera e in gran parte ancora da scoprire, un paradiso da conquistare per chiunque avesse abbastanza fegato da affrontare un viaggio di oltre tremila miglia. Ed è durante questo lunghissimo viaggio che ogni cosa si compie, che i destini dei singoli, proprio come i fili mossi da un burattinaio, troveranno in qualche modo il proprio perché, qualcosa che somigli a un senso, spezzandosi d’improvviso, esattamente come a volte fa la vita, deviando da un cammino che si immaginava già segnato, ricominciando da zero quando ogni cosa sembrava ormai perduta o ancora arrendendosi, allo sfinimento, al dolore, a una pallottola o a un freccia per nessun altro motivo se non perché è venuto il momento di fermarsi.
Lonesome Dove è un romanzo indimenticabile, un’epopea magnifica raccontata in modo magistrale. Un’opera che merita di essere considerata un classico, e, nel genere cui appartiene, il western, con ogni probabilità il miglior libro mai scritto.
Eccovi l’incipit. La traduzione, per Einaudi, è di Marghertita Emo. Buona lettura.
Quando Augustus uscì sotto il portico, i maiali grigi mangiavano un serpente a sonagli, uno non molto grosso. Doveva aggirarsi in cerca d’ombra quando era incappato nei maiali. Ora loro si azzuffano su di lui, e il tempo di agitare il sonaglio era finito. La scrofa lo teneva per il collo e il maialetto per la coda.