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Un vorticare inerte

Recensione de “Il paradiso maoista” di Philip K. Dick

Philip K. Dick, Il paradiso maoista, Fanucci

Gather yourselves togheter, che si potrebbe tradurre, più o meno letteralmente, con l’imperativo ‘Ricomponetevi’ o ‘Radunatevi assieme’, è il titolo originale di questo inedito dickiano, pubblicato per la prima volta nel 1994 in una tiratura di pochi esemplari da una piccola casa editrice americana […].

Quello che abbiamo davanti a noi è […] l’opera significativa di un autore agli esordi, probabilmente ventiduenne (la stesura si può far risalire al 1949 o 1950), alla ricerca di un’ispirazione che comincia a coagularsi proprio nel paesaggio semidesertico di una terra di nessuno situata ai confini del mondo […]. I tre eroi di Il paradiso maoista sono paragonabili a soldati smobilitati e costretti a lasciare una poderosa base militare costruita in Cina (in realtà un grande impianto industriale), non senza aver passato le consegne – mentre i loro compagni sono già partiti per far ritorno negli Stati Uniti – agli abitanti del posto, che sono poi i soldati dell’esercito rosso di Mao in procinto di prendere il potere”.

Con queste parole Carlo Pagetti introduce Il paradiso maoista, esordio letterario di Philip K. Dick (in Italia pubblicato da Fanucci nella traduzione di Giuseppe Castigliola), romanzo sfuggente, inevitabilmente acerbo ma nonostante ciò coraggioso tanto nella scelta del tema trattato quanto in alcune soluzioni narrative. Lo scrittore americano colloca la sua storia nel tempo e nello stesso momento dal tempo, dal suo scorrere così come lo percepiamo, si sforza di fuggire lasciando da una parte che il presente, dilatato da un’attesa vuota, da un “nulla” che ha la concretezza ossessiva e sfuggente del silenzio, dell’alternarsi di notte e giorno, si consumi da sé, come la brace di una sigaretta accesa e non aspirata, e dall’altra viaggiando, attraverso i suoi personaggi, in un passato che pur essendo, in qualche misura (almeno per due di loro) quasi un antefatto di ciò che si trovano a vivere, non offre risposte, non chiarisce, non definisce, non illumina ma, al pari di una cattiva filosofia, si avviluppa in ipotesi, in quesiti destinati a rimanere insoddisfatti, in balbettanti tentativi di spiegazione che ottengono soltanto il risultato di confondere ancor più di carte in tavola.

Dick dunque, fin dal suo primo lavoro, decide di giocare sui contrasti, sulle contraddizioni; nella sua “scacchiera narrativa”, -un luogo-non luogo, un vasto terreno di proprietà di un complesso industriale americano al centro del quale troneggiano edifici maestosi dove già si insinua la febbre devastante dell’abbandono – egli colloca tre impiegati, gli unici rimasti dopo una smobilitazione di massa; a loro è stato affidato (attraverso un’estrazione a sorte, perciò per puro caso) l’incarico di aspettare i cinesi che dovranno riprendersi tutto quanto, smantellarlo e farlo risorgere a nuova vita, ma nell’attesa di questo incontro è un altro il compito cui sono chiamati: quello di conoscere se stessi, di comprendersi, di elaborare, finalmente, quel che è stato per poter affrontare le incognite che li attendono. Perché due delle tre persone estratte a sorte, il disilluso Verne Tildon e Barbara Mahler, una donna ancora molto giovane e tuttavia amputata di una parte fondamentale di sé da qualcosa di molto prossimo a una violenza carnale subita proprio da Tildon quattro anni prima, quando lei aveva solo vent’anni, condividono un segreto, una colpa, un rimorso, forse, e la loro convivenza forzata (che non è in nulla diversa a quella di due detenuti costretti a dividere lo spazio angusto di una cella, anche se qui gli spazi sono immensi, ma l’unico effetto che sortiscono, ed ecco tornare il denominatore comune della contraddizione, è quello di ampliare la solitudine fino a renderla intollerabile, facendo sì che i protagonisti, loro malgrado, tornino a cercarsi ancora e ancora, in una angosciosa spirale di fraintendimenti, errori e inciampi) sembra un crudele gioco del caso. Tra loro, elemento disturbare e insieme trait d’union, Carl Fitter, poco più di un ragazzo, ingenuo, d’un candore quasi grottesco, inesperto del mondo, incapace di avere relazioni con gli altri, che cerca riparo alle insidie e alle paure in disordinate letture di filosofia da cui nasce un abbozzo di trattato, linee guida di una condotta morale che egli finirà per svelare a una poco attenta Barbara sperando in questo modo di non dover mettere in gioco se stesso.

È una una specie di danza macabra e sterile quella che conducono i tre superstiti dickiani de Il paradiso maoista: è, il loro, un vorticare inerte, come di polvere; è, la loro, metafora di una condizione esistenziale universale.

Eccovi l’incipit. Buona lettura.

Era un tardo pomeriggio di fine estate. La giornata era stata calda, ma una volta tramontato il sole, cominciava a cadere una fredda umidità. Carl Fitter scese la scalinata che conduceva agli alloggi maschili, trascinandosi dietro una pesante valigia e un piccolo involto legato con un filo di spago marrone.

1 commento su “Un vorticare inerte”

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