Recensione di “Berlino ultimo atto” di Heinz Rein
“Lisbona, San Francisco e Tokyo furono distrutte dai terremoti in pochi minuti; passarono parecchi giorni prima che gli incendi di Roma, Chicago e Londra venissero spenti. I roghi e le scosse che colpirono quel punto della superficie terrestre collocato a 52 gradi e 30 di latitudine nord e a 13 gradi e 24 di longitudine est durarono per quasi due anni. Cominciarono nella notte, buia e serena, del 23 agosto 1943 e cessarono nel grigiore piovoso del 2 maggio 1945. In quel punto, a 32 metri sul livello del mare, su un deposito sabbioso risalente all’era glaciale, fino alla notte in cui prese avvio la sua fatale distruzione sorgeva la città di Berlino”.
Equiparato a una catastrofe naturale per le apocalittiche dimensioni della sua distruzione, ma giudicato, a più riprese, come inevitabile conseguenza della follia sanguinaria di un manipolo di criminali talmente ingegnosi, nella loro cupa malvagità, da riuscire ad asservire un intero popolo, l’annientamento della capitale tedesca a opera dell’esercito russo e delle forze armate alleate, atto finale del secondo conflitto mondiale e dell’incubo nazionalsocialista, è il cuore narrativo e tematico di Berlino ultimo atto, romanzo del giornalista Heinz Rein, oppositore della prima ora del nuovo corso politico tedesco che aveva cominciato a dispiegarsi in tutta la sua forza a partire dal 1933, a più riprese condannato al carcere e alle sfiancanti umiliazioni del lavoro forzato.
In questo suo lavoro Rein si concentra sulle ultime tre settimane di vita del Reich, operando, in una sorta di beffardo gioco di specchi, in modo uguale e contrario alla moribonda dittatura militare tedesca. I nazisti, infatti, fa dire l’autore a uno dei suoi personaggi principali – Lassehn, giovane e ingenuo studente di musica, così puro d’animo da ricordare il principe Myskin, protagonista de L’idiota di Fedor Dostoevskij, soldato disertore, che in una Berlino agonizzante incontra altri oppositori del regime e, assieme a essi, matura in pochi giorni una nuova coscienza, risvegliandosi al mondo e osservandolo finalmente per ciò che è realmente stato fino a quel momento: una assurda e violenta menzogna propalata con ogni mezzo da uomini privi di scrupoli, disposti a tutto pur di veder trionfare la propria distorta idea di potere – sono riusciti nel peggiore dei giochi di prestigio possibili: “[…] sono riusciti a equiparare il nazismo con la nazione tedesca, a diffondere l’opinione che la fine del nazismo debba significare anche la fine della Germania e del popolo tedesco. Ho avuto parecchi compagni d’armi che dichiaravano del tutto apertamente di non avere simpatie per il nazismo ma che si trovavano nella situazione d’emergenza di dover difendere la Germania”.
Calandosi dunque in una realtà che vede nella dittatura e nel Paese che questa dittatura soffoca la più assoluta identità, Rein racconta con durezza d’accenti questa perversione delle menti e dei cuori, questo colossale sonno ipnotico di massa, dal punto di vista di coloro che non si sono mai fatti ingannare; un manipolo di uomini e donne di diversa estrazione, clandestini nella loro stessa terra, costretti al mascheramento, al doppio gioco, all’obbedienza formale alla barbarie (che offriva loro il destro per dare il via alle più diverse opere di sabotaggio e a una battaglia ideologica combattuta senza quartiere, contendendo al Reich ogni singola anima, ogni cervello, ogni cieca obbedienza di soldato). Nel rinunciare a raffinatezze stilistiche, nella sua rigorosa presa di posizione contro Hitler e la sua accolita di assassini, nel suo girovagare strada per strada in una Berlino descritta fin nei minimi dettagli e restituita come un corpo dilaniato, l’autore manifesta con assoluta chiarezza il proprio intendimento, che è politico e non letterario; sul romanzo, sulla sua scorrevolezza, pesa tanto la sovrabbondante retorica dei dialoghi quanto la marcata sottolineatura dei torti e delle ragioni (che riverbera su coloro che incarnano le tesi del nazismo e quelle opposte, finendo per dar vita a caratteri eccessivamente stereotipati nel bene e nel male), ma come ben spiega Mario Rubino, traduttore dello scritto per Sellerio e autore della nota finale al romanzo, queste caratteristiche, lungi dall’essere lacune dello scrittore Rein sono frutto di una scelta consapevole. Scrive infatti Rubino: “Mettendo a frutto la propria esperienza di giornalista, Rein elaborò una narrazione in cui il dettagliato resoconto delle ultime tre settimane che precedettero la resa della città di Berlino s’intersecava e interagiva con le vicende […] di non pochi personaggi paradigmatici delle condizioni in cui venne a trovarsi la popolazione della capitale del Reich al suo collasso. In tale formula letteraria non c’era traccia della contratta laconicità americaneggiante, caratteristica della cosiddetta «letteratura delle macerie» di un Andersch o di un Böll, ma semmai un evidente rifarsi ai moduli stilistici della Lega degli scrittori proletari, il movimento vicino al Partito comunista che alla fine degli anni Venti aveva propugnato un metodo di scrittura coinvolgente, benché talora non privo di qualche enfasi retorica, alla portata delle grandi masse così da essere utile alla causa politica”.
Pubblicato per la prima volta nel 1947, salutato da un grande successo e poi dimenticato per lungo tempo, Berlino ultimo atto è memoria collettiva. Quel che resta di questo libro non ha a che fare tanto con la letteratura quanto con la storia, con il passato e con ciò che non dovrebbe mai smettere di insegnarci.
Eccovi, invece dell’incipit, una dichiarazione rilasciata da Joseph Goebbels, ministro del Reich per l’educazione popolare e la propaganda, ai giornalisti nel marzo 1945. Questa dichiarazione apre la prima parte del romanzo. Buona lettura.
Adesso dobbiamo pensare ed agire come Federico il Grande. Ma, se dovessimo soccombere, soccomberà con noi l’intero popolo tedesco. Ed anche in modo così glorioso che perfino fra mille anni l’eroica caduta dei tedeschi occuperà un posto di primo piano nella storia universale.