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Una stoffa liscia e compatta

Recensione di “Golden Hill” di Francis Spufford

Francis Spufford, Golden Hill, Bollati Boringhieri

“Be’, i romanzi li detesto ancora. Continuano a sembrarmi dei tessuti composti da esagerazioni, semplificazioni, una dolcezza che falsifica; e adesso questa verità la conosco, per così dire, dall’interno, avendone scritto uno anch’io e verificato quali trucchi ed espedienti sono richiesti per tirare fuori un punto di vista parzialissimo, un panno sbrindellato più buchi che fili, e trasformarlo in quella che sembra una stoffa liscia e compatta”.


Giunto quasi al termine del suo trascinante Golden Hill, lo studioso, il saggista prestato alla “finzione letteraria” Francis Spufford (autore, tra gli altri, dello splendido L’ultima favola russa, recensito qui), lascia che a parlare del suo lavoro sia uno dei personaggi cui ha dato vita, il quale, nel farlo, non solo si confessa autore del libro, ma, nel momento in cui decide di rivelare il suo segreto, critica con la massima asprezza, di più, rinnega la propria scelta. E così, ciò che fino a un momento prima, nelle mani del lettore, altro non era se non un complicatissimo puzzle, un enigma, un sottilissimo gioco di specchi, un paradosso, una spassosa commedia che a ogni passo rischiava di scivolare nella più terribile delle tragedie, e all’opposto un dramma dalle fosche tinte che celava se stesso dietro un insistito sberleffo, che di continuo si sottraeva alla vista mascherandosi da scherzo tanto crudele quanto ben congegnato, ecco che si compone in un disegno unitario, in un insieme che, come un pensiero filosofico giunto a piena maturazione, risolve ogni contraddizione trasformandola in dimostrazione.

Autore e insieme attore del suo lavoro, Francis Spufford, in Golden Hill, sembra voler misurare le possibilità espressive della prosa modellandola, come fosse creta, in una molteplicità di registri; nella costruzione della trama egli si misura con il romanzo storico (siamo a New York nel 1746; la città non è che un minuscolo porto coloniale che conta circa 7.000 abitanti, mentre l’indiscusso protagonista della storia, il misterioso signor Smith, viene da Londra, città immensa, città regale, che già allora di abitanti ne contava 700.000) e con lo scrupoloso lavoro di documentazione che richiede, per poi prendere gli scenari così dettagliatamente disegnati – “[…] tetti e campanili lo salutarono; un’accozzaglia non molto estesa in altezza, di frontoni gradinati all’olandese e coperture di tegole più tipicamente inglesi, dalla quale sbucava qua e là la mole imperiosa delle chiese, con forme di guglie e cupole, e sullo sfondo un traforo di alberi di nave, dal lento ondeggiare; l’intero panorama intriso, lucente, scintillante dell’acqua che s’era riversata dalle nuvole durante la notte” – e immergerli nella raffinata leggerezza della commedia, della scrittura in punta di penna, dell’ironia sottile e pungente che, splendida, fiorisce nel motteggio, nel duello verbale, incruento solo in apparenza – «Quanto siete deludente, Mr Smith. Avevo inteso che parlavate. “Ha parlato fino a smuovere un mulo”, questa è l’espressione che ho sentito». «Preferisco parlare per tirarmi fuori dai guai, Mr. Oakeshott. Non per cacciarmici». «Prevedete guai?». «E voi, signore?». «Mai».

Non c’è requie nel narrare di Francis Spufford; egli, che ama anche vestire i panni nel suo ambiguo eroe inglese Smith (chi è in realtà? Che cosa è venuto a fare in America? E perché ha con sé una lettera di cambio per un ammontare altissimo che nessuno è disposto a pagare, tanto più che a New York non circola praticamente denaro contante e ogni transazione si paga in merce, in assenza di prove documentali a sostegno delle sue pretese?), di Smith è anche, seppur attraverso l’ulteriore mediazione di un altro personaggio, il cantore; ed è dunque attraverso questo uomo attento a non rivelare nulla di se stesso e delle ragioni che lo hanno condotto fino al Nuovo Mondo, che la storia tocca altri registri; la tragedia, come già accennato, e la morte, e l’amore naturalmente, con tutte le sue pene e i suoi ostacoli e impedimenti, e la politica e le lotte intestine che nutre, che le sono connaturate, e sempre, sopra ogni cosa, il mistero irrisolto e forse irrisolvibile di mr. Smith, la ragione che lo ha condotto in questo villaggio primitivo e per molti versi ancora selvaggio che ha nome New York. Fino al momento in cui le cose stesse, il loro procedere, la loro muta indomabilità ai disegni degli uomini, non importa quanto accurati, non porteranno ogni cosa alla luce. Svelando una verità che, proprio come la celebre lettera di Edgar Allan Poe, è stata fin dal principio sotto gli occhi tutti.

Eccovi l’incipit di questo piccolo, scintillante gioiello di cui vi raccomando la lettura. La traduzione, per Bollati Boringhieri, è di Carlo Prosperi. Buona lettura.

Avendo l’Henrietta raggiunto Sandy Hook poco prima dell’ora di pranzo e attraversato i Narrows intorno alle tre del pomeriggio, per poi lentissimamente procedere sulla distesa grigia della baia di New York in una serie di virate talmente minime da sfidare il calcolo infinitesimale, al punto che Mr Smith, ballando da un piede all’altro sul ponte del brigantino, si era convinto che la montagnola della città stagliata davanti a lui avrebbe aleggiato nella caligine novembrina in eterno, senza mia avvicinarsi, con gran sogghigno del filosofo Zenone; ed essendo il giorno avanzato fino al crepuscolo quando l’Henrietta gettò finalmente l’ancora al Tietjens Slip, con appena una trentina di metri d’acqua a separare Mr Smith dagli autentici tetti delle autentiche case cittadine; ed essendo inoltre il crepuscolo tanto freddo e umido e cupo quanto novembre sa offrire, come se tutto il mondo fosse un in-quarto di pagine grigie così infradiciato dall’acquerugiola da dare l’impressione di potersi ridurre in poltiglia in qualsiasi momento: datosi tutto questo, il capitano del brigantino invitò caldamente Mr Smith a dormire a bordo ancora un’ultima notte prima di occuparsi l’indomani mattina dei suoi affari sulla terraferma.

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