Recensione di “Danny l’eletto” di Chaim Potok
L’amicizia tra Danny Saunders e Reuven Malter, ragazzi ebrei divisi da approcci diversi alla fede, è un simbolo. Riflette l’anarchica esuberanza e la passione scomposta ma sincera proprie dell’adolescenza, ma soprattutto il conflitto radicale tra ossequio alla tradizione religiosa e apertura alla modernità. Le rigide regole della comunità chassidica cui appartiene Danny, figlio di un rabbino rispettato fin quasi alla venerazione, escludono qualsiasi tipo di “contaminazione”, dunque perfino Reuven, ebreo ortodosso, figlio di uno studioso del Talmud, colpevole solo di non essere un chassid. I due ragazzi, però, pur tra mille difficoltà, trovano il modo di incontrarsi, confrontarsi, capirsi. Danny è attratto da una materia “impura”, la psicologia, mentre Reuven vuole studiare per diventare rabbino; il loro orizzonte culturale, così come il loro credo, più che allontanarli, li unisce. Malgrado tutto e tutti.. Danny l’eletto è uno dei più noti (e riusciti) romanzi di Chaim Potok. Tema centrale di questa, come di quasi tutte le sue opere, è la religione, il rapporto tra fede e libertà, tra appartenenza all’ebraismo e rivendicazione di scelte individuali di vita, tra il singolo e il contesto familiare e sociale nel quale si forma come uomo. Scrittore di notevole talento, sensibile e colto, Potok accompagna il lettore alla scoperta di un mondo complesso, chiuso, per molti aspetti enigmatico ma anche esaltante come quello ebraico. Con semplicità ma senza gratuiti e irritanti semplicismi. E riesce in un piccolo, grande miracolo: annulla ogni distanza tra noi e gli altri e ci spinge a conoscere, a capire, a non fermarci sulla soglia delle cose, delle persone.
P.S. Danny l’eletto ha un seguito, La scelta di Reuven. Inferiore al primo (del resto, era difficile mantenersi a quel livello) ma comunque godibilissimo.
Leggete Danny l’eletto, vi conquisterà fin dalle prime righe, che vi presento di seguito.
Durante i primi quindici anni della nostra vita, Danny e io abitammo a cinque isolati di distanza senza che né lui né io sospettassimo l’esistenza l’uno dell’altro. L’isolato di Danny era gremito dei seguaci di suo padre, ebrei russi chassidim in abito scuro, i cui usi, principi e precetti erano sorti dal suolo del paese che avevano abbandonato. Facevano il tè col samovar e lo sorseggiavano lentamente tenendo una zolletta di zucchero tra i denti; mangiavano i cibi della madrepatria, parlavano a voce alta, ogni tanto in russo ma di solito in yiddish e professavano una fedeltà indiscussa al padre di Danny. L’isolato limitrofo era occupato da un’altra setta di chassidim, ebrei della Polonia meridionale, che giravano per le strade di Brooklyn come spettri, coi cappelli neri, i lunghi soprabiti neri, le barbe nere e i riccioli spioventi sugli orecchi. Il rabbino di questi ebrei era anche il loro capo per diritto dinastico, e poteva far risalire la supremazia rabbinica della propria famiglia al tempo del Ba’al Shem Tov, il fondatore del chassidismo, vissuto nel secolo decimottavo e stimato da tutti un personaggio eminente, investito da Dio.