Recensione de “Le nuvole” di Aristofane
Una satira accesa di rancore e di rimpianto, una comicità immediata, folgorante, che insiste sulla deformazione grottesca dei caratteri, sulla genialità delle soluzioni linguistiche, sulla sorpresa l’imprevedibilità e il paradosso; un meccanismo narrativo perfetto, il cui procedere scatena nel lettore una tempesta di emozioni contrastanti che tuttavia miracolosamente convivono tra loro: liberatori scoppi di risa, indignazione, malinconia e spensieratezza.
Le commedie di Aristofane (massima espressione, insieme alla tragedia, della produzione teatrale della Grecia classica) sono assoluti capolavori d’ironia, il più delle volte feroce, accanita, deliberatamente perfida, sono ritratti magistralmente deformati della realtà politica, sociale e culturale del tempo, sono il manifesto dei pensieri e delle convinzioni del suo autore. Attraverso queste opere, Aristofane prende posizione su numerosi temi di grande importanza, come per esempio la guerra le sue tragiche conseguenze (negli Acarnesi e con ancora maggior forza, e impressionante modernità, nella Lisistrata, la cui protagonista è una donna che invita tutte le donne di Grecia a non concedersi più ai loro uomini per costringerli a smettere di uccidersi tra loro), la difesa della democrazia ateniese dal pericolo di una sua corruzione (ne I Cavalieri), la nostalgia per la perduta grandezza letteraria (ne Le Rane, dove sferra un attacco violentissimo a Euripide), e riesce persino a ritagliare uno spazio per le utopie, i sogni e i desideri (rappresentati, non senza sfumature di dolente dolcezza, ne Gli Uccelli, i cui protagonisti, Euelpide e Pisetero, disperando di riuscire a vivere tra gli altri uomini decidono di fondare una città nuova tra cielo e terra, e nelle Ecclesiazuse, che vede Atene governata, naturalmente con saggezza e un pizzico di doverosa e spassosa cattiveria, da un’assemblea di donne). Discorso a parte in questo contesto meritano Le Nuvole, che Aristofane fece mettere in scena nel 423, durante la festa delle Grandi Dionisie; bocciata dal pubblico e difesa con rabbia, anche se non con altrettanta convinzione, dall’autore (che prima la definì la sua opera migliore e poi la sottopose a profonda rielaborazione), questa commedia e un chiaro atto d’accusa nei confronti delle nuove correnti di pensiero diffuse ad Atene, da lui identificate nella sofistica e qui riassunte nella figura di un Socrate ridicolizzato senza pietà e dipinto come un disonesto e cialtronesco affabulatore.
Aristofane, che prende le parti del sempliciotto contadino Strepsiade, racconta la disperazione dell’uomo, il cui figlio, Filippide, a causa della passione per le corse dei cavalli ha dilapidato tutte le sostanze e contratto più di un debito. Esasperato dalle pressanti richieste dei creditori, Strepsiade vorrebbe che il ragazzo si recasse al Pensatoio, la scuola di Socrate, dove, dice, “vi abita gente che ti convince, a furia di chiacchiere, che il cielo è un forno, sistemato intorno a noi, mentre noi siamo i carboni. Loro, basta che li paghi, insegnano a vincere cause buone e perse, sempre con la chiacchiera”. Se il figlio gli desse retta, ragiona Strepsiade, imparerebbe a imporsi dialetticamente nelle dispute sulla restituzione dei soldi presi in prestito, e ogni cosa andrebbe a posto, ma il giovane respinge l’invito, e così al Pensatoio decide di andare proprio Strepsiade, per apprendere i segreti della retorica e provare a farne buon uso. Sfortunatamente, gli sforzi di Socrate (rappresentato seduto in una cesta sospesa in aria e circondato dalle amate nuvole, divinità potenti, che dispensano “l’arte di imbrogliare con lunga chiacchiera, sorprendere e incantare”) per istruirlo non vanno a buon fine, e il povero Strepsiade viene cacciato dalla scuola. È a questo punto che Filippide, incuriosito dai racconti del padre, si reca al Pensatoio, dove assiste all’illuminante disputa tra il Discorso Giusto e il Discorso Ingiusto, summa della sapienza artificiosa e strumentale che vi si insegna. Il Discorso Ingiusto (che chiaramente simboleggia la dottrina dei sofisti), infatti, sbaraglia l’avversario e seduce Filippide, che se ne impadronisce. Trasformato in filosofo per la gioia del genitore, Filippide affronta i suoi creditori e li sconfigge (si rifiuta di restituirgli i soldi e, alla loro richiesta di avere almeno gli interessi sul debito replica così: “Secondo te il mare è più grande adesso o una volta? […] Se non cresce lui, e ci scorrono dentro i fiumi, pretendi che crescano i tuoi soldi?”), ma poi utilizza la forza del Discorso Ingiusto per giustificare la violenza fisica nei confronti del padre. Al povero Strepsiade, picchiato da chi ha messo al mondo e per di più preso in giro e umiliato, non resta che una sola possibile vendetta: incendiare l’odiato Pensatoio e liberarsi così del pernicioso Socrate e di tutti i suoi discepoli.
Arguta nei dialoghi, spiazzante in più di un’occasione, gioiosamente frenetica nel ritmo, Le Nuvole è un’opera di assoluto fascino, scorrevole e divertentissima; la critica alle nuove filosofie (che in realtà è più il lamento di un conservatore tradizionalista per una perduta età dell’oro del pensiero che una vera e propria messa in discussione dell’esistente) è forse troppo semplicistica, ma va detto che il suo pregio non sta nella correttezza e nella profondità dell’analisi, bensì nella sua sincerità. E non v’è dubbio che Aristofane scriva con il cuore.
A voi l’incipit. Buona lettura.
Strepsiade Ahi ahi! Dio signore, che strazio, notti così: non finisce più! E quando farà giorno, mai? Pure, da parecchio ho sentito il gallo: i servi, invece a russare. Ci avessero provato, una volta. Accidenti alla guerra, tutta colpa sua: non posso nemmeno punire i servi. Si svegliasse mai, la notte, quest’altra buona lana: spetezza solamente, arrotolato in cinque coperte. Vediamo di metterci sotto e russare anche noi. Povero me, non riesco a dormire: che morsi, gli sperperi, il maneggio, i debiti per via di mio figlio. Eccolo qua: zazzera, equitazione, carri da corsa, se li sogna persino, i cavalli. Io mi sento morire invece, a vedere che entra il mese nuovo: crescono gli interessi! (Allo schiavo) Accendi la lampada, tira fuori il registro: voglio leggere che debiti ho, contare gli interessi. Allora i debiti, vediamo: dodici mine a Pasia.
L’ha ribloggato su l'eta' della innocenza.