Recensione di “La figlia del capitano” di Aleksandr Sergeevic Puskin
Si può considerare una sorta di testamento spirituale il lungo racconto La figlia del capitano di Aleksandr Sergeevic Puskin, pubblicato nell’inverno del 1836, pochi mesi prima che il grande scrittore, poeta e drammaturgo russo morisse a causa di una grave ferita subita in un duello d’onore (aveva sfidato Georges D’Anthès, presunto amante della moglie). La vicenda, che ha i contorni precisi di una cronaca storica e il tumultuoso andamento di una storia d’amore e d’avventura, narra del giovane Pëtr Andréevic Grinëv, figlio di un severo ufficiale ormai a riposo, che viene inviato dal padre in una fortezza distante una quarantina di chilometri dalla città di Orenburg: nelle intenzioni del genitore, il servizio militare, prestato lontano dagli svaghi e dalle raffinatezze di San Pietroburgo, sarà di fondamentale importanza nel percorso formativo del ragazzo. Puskin, con limpido stile, prepara il lettore alle numerosissime sorprese e ai colpi di scena del racconto: come in una perfetta rappresentazione teatrale introduce i primi “attori” dell’intreccio (la madre e il padre di Pëtr e il vecchio e burbero precettore Savel’ic), poi si concentra nelle descrizioni degli scenari (pochi, essenziali tocchi, che comprendono anche il violento scatenarsi di una bufera di neve, per rappresentare la durezza del viaggio – “intorno a me si stendevano tristi deserti, solcati da colline e burroni. Tutto era ricoperto di neve. Il sole tramontava. Il calesse procedeva per una strada stretta, o, per meglio dire, lungo la traccia lasciata dalle slitte dei contadini”) e infine, con l’arrivo dei protagonisti alla fortezza, regala al resto della narrazione un respiro quasi epico. Sovrappone i destini dei singoli a quello della nazione per esaltare i valori del proprio orizzonte morale – l’etica del sacrificio, l’amore capace di resistere a ogni rovescio, la fedeltà alla terra e alla patria – e intreccia il progressivo svilupparsi della passione tra Mar’ja (la figlia del comandante dell’avamposto) e Pëtr prima con la gelosa opposizione di un commilitone del giovane (Svabrin, anch’egli attratto da Mar’ja) e con la ferma contrarietà del padre, che informato da Pëtr della sua volontà di sposare la ragazza non solo nega il proprio permesso ma addirittura cerca di far trasferire il figlio per allontanarlo da quella che considera una perniciosa tentazione, poi con la sanguinosa rivolta cosacca guidata da Pugacëv, carismatico avventuriero che mira a moltiplicare focolai di ribellione in tutta la Russia per poter rovesciare lo zar e insediarsi sul trono al suo posto.
Così la storia, vista attraverso le vicissitudini degli individui, diviene comune svolgersi di esistenze, trama che è dell’identica sostanza di cui sono fatte le vite degli uomini: assume i toni cupi della tragedia quando la fortezza, assaltata dagli uomini di Pugacëv e indebolita al proprio interno dalla folta presenza di cosacchi, che simpatizzano con i rivoltosi, capitola e molti ufficiali vengono sommariamente giustiziati (fine cui Pëtr scampa grazie all’intervento di Savel’ic, che implora la grazia per il suo protetto, ma soprattutto, ed è qui che si ha uno dei tanti colpi di scena citati in precedenza, alla misteriosa benevolenza dimostrata dal capo dei ribelli); trascolora nel dramma amoroso nel momento in cui Mar’ja, insidiata da Svabrin, che ha deciso di unirsi agli insorti ed è determinato a sposarla, gli invia una disperata richiesta d’aiuto; si infiamma nella poetica, potente evocazione della lealtà tradita quando Pëtr, a rivolta ormai domata, viene ingiustamente accusato (ancora una volta da Svabrin, reso spietato dal suo amore non corrisposto per Mar’ja) di aver collaborato con gli insorti e, giudicato da una commissione di indagine, condannato a morte (pena poi commutata in un esilio permanente in Siberia). Pëtr, che potrebbe chiamare in soccorso l’amata e, grazie alla sua testimonianza, far cadere l’accusa a suo carico, rinuncia a difendersi per evitare a Mar’ja di rivivere le terribili esperienze subite, ma lei non lo abbandona comunque; si reca a San Pietroburgo e chiede la grazia a Caterina II. La zarina, ascoltata tutta la storia, decide di concederla e i due amanti possono finalmente riunirsi. Non inganni l’andamento della vicenda, non di un ingenuo racconto sentimentale si tratta (e, sia detto con chiarezza, non ci sarebbe nulla di male se così fosse); La figlia del capitano è un’opera che ha il proprio fondamento nella storia e nell’acuta sensibilità dell’autore, capace di guardare – e in questo anticipatore di un maestro come Tolstoj – ai grandi avvenimenti senza perdere di vista coloro che ne sono i protagonisti: gli uomini e le donne comuni.
Eccovi l’incipit del racconto. Buona lettura.
Mio padre Andrej Petrovic Grinëv nella sua giovinezza aveva prestato servizio agli ordini del conte Münnich e si era congedato con il grado di primo maggiore nel 17…
L’ha ribloggato su l'eta' della innocenza.