Vai al contenuto
Home » Recensioni » La soave irruenza delle parole

La soave irruenza delle parole

Recensione di “La vita davanti a sé” di Romain Gary

Romain Gary, La vita davanti a sé, Neri Pozza Editore

Essere ebrei può significare molte cose. Tra queste, lo sterminio nazista evitato per un soffio, una vecchiaia difficile segnata dalla precarietà e dalle malattie, un corpo sgraziato di quasi un quintale di peso utile solo a procurare affanni, e non ultima una casa al sesto piano di un palazzo malandato e privo d’ascensore.

E oltre tutto questo, essere ebrei può significare un agrodolce passato da prostituta e un presente che a quella vita di strada si intreccia così strettamente da trasformare, per coloro che ancora si guadagnano il pane con il sesso mercenario, una donna qualunque in una specie di dono della provvidenza. Essere ebrei, nella periferia parigina dell’immediato secondo dopoguerra, può significare vestire i tragicomici panni di Madame Rosa, la “puttana buona” (ex puttana, in verità) che nella sua casa ospita e mantiene i figli delle colleghe, che a causa del loro lavoro – e soprattutto di quanto stabilito dalla legge, che impedisce a queste persone di prendersi cura della propria prole – non possono tenere con sé i loro bambini. E Madame Rosa, nutrita dall’affetto ingenuo e spavaldo di uno dei suoi figliocci, ricordata con rabbia e amore, disegnata nella disperazione, nelle lacrime e nelle risa, trattenuta in un soffocare di abbracci e in pazzi girotondi di parole, è tra gli indimenticabili protagonisti di un romanzo dolcissimo e terribile, scintillante di pietà e ruvido d’amarezza: La vita davanti a sé, pubblicato da Romain Gary (nome d’arte di Romain Kacev) nel 1975 con lo pseudonimo di Emile Ajar e vincitore, quello stesso anno, del prestigioso Premio Goncourt. Voce narrante del romanzo è Momò (Mohammed in realtà), un ragazzino arabo di dieci anni (che forse però di anni ne ha quattordici) che, gli occhi neri spalancati alla vita che ha davanti a sé, racconta con disarmante sincerità i suoi giorni bagnati di povertà e purezza in compagnia di altri bambini, tutti “figli di puttane” come lui.

E forse perché più intelligente e capace degli altri, o forse perché quella in cui si trova è una situazione davvero unica – le madri degli altri bambini, di tanto in tanto, si ricordano di Madame Rosa e dei loro piccoli e vanno a trovarli; capita anche che li tengano con sé qualche giorno, mentre Momò è sempre solo, come se chi lo ha messo al mondo fosse morto – o forse ancora perché il legame tra lui e Madame Rosa è davvero qualcosa di speciale, è Momò il solo a ripagare le fatiche della vecchia, ormai sfinita nel corpo e nello spirito e alle soglie della demenza, con una presenza costante e una commossa sollecitudine. Perché Momò, pur nel disordine e nella confusione di quella vita, pur essendo praticamente un ragazzo di strada, costretto a guadagnarsi il pane esibendosi nelle piazze e lungo le vie con un ombrello truccato e vestito come una persona, pur senza poter andare a scuola (che lo ha rifiutato), guarda a Madame Rosa nello stesso modo in cui un figlio guarda alla propria madre; e lei ne ricambia ogni slancio. Così Gary, nei panni laceri e splendidi di questo ragazzo gettato suo malgrado nel mondo e che al mondo riserva la sua incrollabile, cristallina “ingenuità di giovane uomo” – “Se c’è una cosa che so fare è correre. Non se ne può mica fare a meno nella vita […]. Mi andavo spesso a sedere nella sala d’aspetto del dottor Katz, perché Madame Rosa diceva sempre che era un uomo che faceva del bene, ma non mi sono mai accorto di niente. Forse non ci restavo abbastanza. Lo so che al mondo c’è della gente che fa del bene, ma non sta sempre lì a farlo e bisogna capitarci al momento giusto” – narra quasi vestendo di fiaba le difficoltà che incontra; ogni cosa, illuminata dalla meravigliosa semplicità della prosa dell’autore, sembra rinunciare a ciò che è, alle proprie imperfezioni, per riacquistare una sorta di sepolta dignità: e allora ecco che il nudo termine puttana, la parola oscena, l’insulto gettato addosso agli altri, torna a essere ciò che essenzialmente è, una chiave interpretativa della vita in base alla quale è puttana chiunque decida di difendersi “utilizzando il proprio culo”, mentre gli incubi altro non sono se non “sogni invecchiati”, e tutta la saggezza del mondo riposa nei quieti ricordi di un venditore ambulante di tappeti, il signor Hamil, che ha girato la Francia in lungo e in largo “e ne ha viste di cotte e di crude”, e tutta la sua bontà nella straripante presenza di Madame Lola, ex pugile senegalese, transessuale, che lavora con grande successo al Bois de Boulogne e non fa mai mancare a Madame Rosa, Momò e agli altri ospiti della casa cibo, dolci e, tutte le volte che può, anche champagne, e negli esorcismi del “mangiatore di fuoco” signor Waloumba, che, assieme ai suoi fratelli, con i quali vive, combatte i sempre più frequenti attacchi di demenza di Madame Rosa con danze e scongiuri tribali.

Scrittore di straordinario talento, Romain Gary è Momò in questo suo puro narrare che è miracolosa trasfigurazione della sofferenza e, nello stesso momento, sua scandalosa rivelazione; egli, ne La vita davanti a sé affida a una prosa sublime, che è congiunzione d’estremi e risoluzione di tutte le contraddizioni, il definitivo superamento della dicotomia autore-personaggio. In questa indimenticabile coincidenza d’opposti letteraria Momò guarda al mondo con gli occhi di Gary e Gary lo racconta con la soave irruenza delle parole di Momò.

Eccovi l’incipit del romanzo. La traduzione, per Neri Pozza, è di Giovanni Bogliolo. Buona lettura e buona Pasqua a tutti.

Per prima cosa vi posso dire che abitavamo al sesto piano senza ascensore e che per Madame Rosa, con tutti quei chili che si portava addosso e con due gambe sole, questa era una vera e propria ragione di vita quotidiana, con tutte le preoccupazioni e gli affanni.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *