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Dostoevskij, romanziere eccelso

Recensione de “I demoni” di Fedor Dostoevskij

Fedor Dostoevskij, I demoni, Garzanti

Più di qualsiasi altro romanziere, Fedor Dostoevskij ha saputo penetrare fin nei più intimi recessi dell’animo umano. Le sue opere sono principalmente ritratti psicologici, modelli di comportamento definiti nella loro compiutezza (dal compimento dell’azione fino all’analisi dei moventi che hanno condotto a determinate scelte, e ancora più in là all’individuazione dell’architettura etico-morale che sta a fondamento di tutto) con l’ausilio di uno stile di scrittura unico.

La potenza espressiva che si sprigiona dalle pagine del grande autore russo, uno dei più importanti e significativi della storia della letteratura, è impressionante, la prosa meravigliosamente evocativa, la capacità descrittiva prossima alla perfezione. Dostoevskij, tuttavia, non ha alcun interesse verso la bellezza fine a se stessa; il suo stile, seppur di vertiginoso splendore, è alieno da formalismi e totalmente al servizio della sua instancabile indagine sull’uomo. La sua sete di conoscenza, che romanzo dopo romanzo sembra aumentare invece di placarsi, lo porta a formulare quesiti sempre più radicali; la persona, il singolo, nel suo rapporto con se stesso, gli altri, e persino con l’insondabile mistero rappresentato dal divino (specchio e metafora delle infinite possibilità connesse all’esercizio del libero arbitrio e delle responsabilità che ne derivano), vengono affrontate – con la selvaggia, febbrile disperazione dello scienziato pronto a sacrificare qualsiasi cosa ai propri studi, al raggiungimento della scoperta inseguita nell’arco di un’intera vita – soprattutto nei “grandi romanzi”, unanimemente riconosciuti come il vertice della sua produzione letteraria.

Attraverso la patetica figura dell’assassino Raskol’nikov, in Delitto e castigo (recensito qui) Dostoevskij segue passo dopo passo la deriva di chi ha abbandonato il proprio ordine morale in virtù di un atto di superbia. Il giovane protagonista del romanzo confonde la libertà, e i limiti che per definizione le appartengono, con l’arbitrarietà; pensa di poter abbandonare la via dura e difficile (ma salvifica) della moderazione dei propri egoismi per imboccare quella della piena e indifferente liceità, che vede nell’io la sola misura di ciò che è possibile (dunque ammissibile) compiere. La totale assenza di divieti che questa condizione comporta conduce inevitabilmente alla perdita di sé; Raskol’nikov, inebriato di un falso senso d’onnipotenza, prima nega alla radice la sua umanità divenendo omicida, poi, al termine di un devastante viaggio nel “sottosuolo” della paura, del rimorso e del tormento, torna ad abbracciarla pagando la sua colpa. Nel magnifico romanzo L’idiota (recensito qui), all’inquietudine di Raskol’nikov si sostituisce la figura dell’“uomo buono” incarnata dal principe Myskin. Myskin non è semplicemente un ingenuo, né un adulto rimasto fanciullo; la sua purezza è di ordine metafisico, riflette il disegno di un principio ordinatore (misericordioso e gentile) che egli vede dappertutto intorno a sé; nella magnificenza dei palazzi di San Pietroburgo, nello splendere del sole, perfino nelle distinte coppie che gli passeggiano accanto. Eppure, anche in un’anima che vive in comunione con Dio (se Dio vogliamo chiamare l’intelligenza che governa il mondo e che si offre alla sguardo innocente di alcuni di noi) c’è posto per l’ombra, per il dubbio, per la tormentosa domanda priva di risposta. E quella che Dostoevskij mette in bocca al suo eroe è tanto terribile quanto impossibile da eludere: “Perché i bambini muoiono?”.

Summa dei temi trattati in questi due lavori è I demoni (dell’ultimo dei grandi romanzi, I fratelli Karamazov, ho scritto qui); in questo romanzo Dostoevskij guarda con sospetto i cambiamenti che stanno investendo la società. Quello in cui crede, la sua religiosità, la ferma convinzione della nobiltà dell’uomo (inscindibilmente connessa al suo essere creatura, alla sua essenziale fragilità), sembra cedere dinanzi all’avanzare della forza distruttiva di un nichilismo feroce, del disordine del pensiero anarchico. All’ombra di queste nuove filosofie crescono uomini orfani d’anima, gente come Stravogin e Kirillov (i personaggi principali del romanzo) del tutto priva di guida morale. L’abisso nel quale vivono è perfino peggiore di quello in cui è precipitato Raskol’nikov, perché non è figlio di un travaglio interiore ma di un freddo, meccanico ragionare, talmente lontano dalla vita da non riuscire neppure a immaginarla. A questi uomini, ritratti con impressionante acutezza (e bersagliati da strali ironici violentissimi, vendicativi), Dostoevskij, pur guardando con sospetto, e spesso con aperta ostilità, non nega ascolto, né compassione, né fratellanza. Anche in quest’opera, forse la più drammatica e lacerante della sua produzione, l’uomo, con i suoi bisogni e le sue debolezze, rimane al centro delle vicende narrate, perché è la sola realtà da cui non si può prescindere. Anche se è a un passo dalla propria distruzione. O forse proprio per questo.

I demoni è un libro indimenticabile, di eccezionale profondità. Leggetelo, resterà con voi per sempre. Eccovi l’inizio, buona lettura.

Nell’accingermi alla descrizione degli avvenimenti tanto strani svoltisi or non è molto nella nostra città, in cui finora non era accaduto nulla di notevole, sono costretto, per la mia inesperienza, a rifarmi alquanto da lontano; e precisamente da alcuni particolari biografici inforno a Stepan Trofimovic Verchovenski, uomo rispettabilissimo e di molto ingegno. Questi particolari non serviranno che d’introduzione, mentre la storia che mi propongo di scrivere seguirà poi. Lo dirò schiettamente: Stepan Trofimovic ha sempre rappresentato fra noi una certa parte speciale: la parte, per così dire, del cittadino ragguardevole, e amava questa parte fino alla passione, tanto che senza di essa non avrebbe potuto nemmeno vivere, credo.

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