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Il racconto di una vita

Recensione di “Madre e figlia” di Francesca Sanvitale

Francesca Sanvitale, Madre e figlia, Einaudi

Un sottile gioco di rimandi, di ricordi, di emozioni; la gioia, talmente intensa da essere quasi impossibile da esprimere e che diviene sete d’assoluto, desiderio di rendere eterno ogni istante di vita, e accanto a essa il baratro infinito del dolore, il tormento che artiglia carne e mente, che come un odioso parassita mette radici nell’anima nutrendosi di pensieri, ossessioni, rimorsi e gonfiandosi, crescendo a dismisura.


Non è semplicemente l’universo dei sentimenti quel che Francesca Sanvitale, nel suo bellissimo romanzo Madre e figlia, presenta al lettore, né un’analisi del loro generarsi, delle circostanze in cui si sviluppano, crescono, maturano e (spesso) deflagrano, e neppure un dramma familiare. In questo lavoro, infatti, forma e sostanza si fondono, ed è attraverso la perfezione stilistica della sua scrittura, nel quieto splendore del procedere narrativo, nel sapiente (e mai meccanico) alternarsi di differenti punti di vista descrittivi, nelle scelte linguistiche, che miracolosamente sembrano nascere da quel che raccontano, prendere vita dai fatti, e non confinare (pur con tutta la ricercatezza, la puntualità, la capacità di conquistare, affascinare, sedurre e convincere che appartengono alle parole scelte da coloro che scrivono per professione, o almeno dai migliori fra loro) quel che viene espresso in un ben determinato spazio sintattico-semantico, che emergono senso e valore dell’opera.

Il labirinto dei legami di famiglia, gli angoli bui nei quali cerca rifugio la vergogna, i vicoli ciechi della rabbia e dell’incomprensione, il vuoto gelido, disumano, di stanze abbandonate da tempo, tradite dalle persone prima che dall’inevitabile scorrere del tempo, la commozione inarrestabile, piena, scatenata da un abbraccio, da uno sguardo, da una confessione sussurrata, tutto questo, e cioè l’irripetibile dipanarsi del sottilissimo filo della vita, gli intrecci esaltanti dell’amore, declinato nelle sue diverse forme – la riverente gratitudine di un figlio nei confronti dei genitori e il loro oblio di sé, il loro annullarsi nella creatura generata; poi il furioso irrompere del cuore, delle sue “ragioni” incapaci di saggezza e moderazione che tutto travolgono nel proprio cammino senza curarsi di ciò che sarà, di quel che oggi si fatica persino a immaginare e che domani sarà realtà, una realtà impossibile da ignorare – gli abissi della paura. E con la vita (e in essa) il quadro “esteriore” delle condizioni materiali, gli agi e la ricchezza, i rovesci della fortuna, l’umiliazione dell’indigenza, della miseria, il desiderio di riscatto.

Francesca Sanvitale segue le due protagoniste del suo romanzo, Marianna, la madre, e Sonia, la figlia, nei rispettivi, tormentati percorsi esistenziali: grazie alla sua grande sensibilità (di donna prima ancora che d’autrice) racconta come se ascoltasse, si mette al servizio della storia invece di farne l’oggetto del suo scrivere, e così facendo riesce a illuminarne ogni angolo: permette al talento di esprimersi liberamente nella sbalorditiva ricchezza delle descrizioni d’ambiente, ma lo trattiene nei punti nevralgici del suo libro, nei momenti più significativi, quando al centro dell’attenzione c’è la verità dei sentimenti: la preziosa serenità dell’infanzia di Marianna, unica femmina in una famiglia di sette maschi, l’amore assoluto del padre, la tragedia della sua perdita, e ancora la giovinezza sventata, l’amore, ricambiato, per un uomo già impegnato in un’altra relazione e il suo tragico naufragio. E da lì, progressivamente, la rovina. E poi la vita di Sonia, che sembra segnata da una maledizione ed è come se fosse lo specchio deformato di quella della madre; una vita dura, sopportata più che accolta, imposta come un sacrificio invece che offerta come un dono, e soprattutto segnata dalla più terribile delle assenze, quella del padre, la figura più importante per Marianna. Madre e figlia è uno di quei rari capolavori della letteratura che, nel loro raccontare, riescono a prescindere quasi totalmente dalla trama, dalla circostanza degli avvenimenti; è un libro intensissimo, autentico, un’alchimia narrativa che dà espressione compiuta a quel che il più delle volte resta ai confini dell’esprimibile: l’esistere.

Eccovi l’incipit. Buona lettura.

Non so perché come luogo fermo del cuore ho inventato questo portone aperto, le colonne laterali corinzie nere dai secoli, l’arco barocco, la bassa cancellata interna. Nell’arco ho dipinto in grigio vasi e piante. Mia madre è luminosa in questa penombra. Cammina nel fondo dell’androne verso la strada, supera l’arco, si ferma, torna minuscola nel cortile, viene avanti. Ogni uscita è un segno, la parte di un monologo che mi dispiace far conoscere, e via via che scrivo proprio a mia madre che viene avanti chiedo scusa; ma non è lei che si vuole difendere, infatti si ferma sorpresa e non capisce la mia preoccupazione; sono io, come ho sempre fatto, che la difendo.

2 commenti su “Il racconto di una vita”

  1. ciao Buona Pasqua ! in questi giorni stai postando troppo … non riesco a leggere tutto vedremo …. ciao

    Il giorno 1 aprile 2018 09:41, Il Consigliere Letterario ha scritto:

    > ilconsigliereletterario posted: “Recensione di “Madre e figlia” > di Francesca Sanvitale Un sottile gioco di rimandi, di ricordi, di > emozioni; la gioia, talmente intensa da essere quasi impossibile da > esprimere e che diviene sete d’assoluto, desiderio di rendere eterno ogni > istant” >

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