Recensione di “Le voci di Marrakech” di Elias Canetti
Pagine di impressioni, di sensazioni; pagine sature di colori, cariche di profumi, attraversate da un vociare continuo, dal frusciare delle vesti, dall’incessante frastuono della vita di uomini e animali. Le voci di Marrakech di Elias Canetti (che nella città marocchina soggiornò per un breve periodo nel 1954) è un piccolo miracolo letterario: la grazia della prosa, dolcissima nello stile e nello stesso tempo così densa, così forte nelle immagini e nelle descrizioni da sembrare la cronaca del più vivido dei sogni, dà al libro un’anima multiforme, un carattere imprevedibile e di assoluto fascino, una ricchezza unica.
Il viaggio, la scoperta, l’entusiasmo, nel quieto procedere della scrittura di Canetti si stemperano fino a diventare un reticolo di appunti personali, una paziente tela di ragno di riflessioni; quel che l’autore vede, vive, sperimenta, riverbera nella mente e nel cuore del lettore, restituendo così intatte esperienza ed emozioni. Come il dolore, che ha caratterizzato i suoi incontri con i cammelli – “Tre volte venni a contatto con i cammelli e ogni volta finì in modo tragico” – o le continue sorprese che riserva la lingua, riscoperta nelle grida dei ciechi lungo strade e vicoli – “Colui che grida è definito dal suo grido, continuamente ripetuto. Ce lo imprimiamo nella mente, lo conosciamo, ora egli è qui per sempre; è lui, nella sua caratteristica nettamente circoscritta: il suo grido. Non verremo a sapere nient’altro di lui, egli si protegge, il grido è anche il suo confine”. Canetti coglie la polifonia di suoni che si leva da Marrakech e ne racconta l’intrinseca armonia, si sofferma a descrivere i differenti modi in cui la città, e il suo spirito, gli riverberano nell’anima, e invita il lettore a seguirlo in questo suo cammino, concreto e spirituale insieme, che riluce nell’inquieta meraviglia della Mellah, il quartiere ebreo, e nel cimitero che ne è il cuore. “Mi trovai in una piazza enorme e spoglia, non vi cresceva un filo d’erba. Le pietre tombali erano talmente basse che quasi non si vedevano, e camminando capitava di urtarle come se fossero pietre qualsiasi. Il cimitero appariva come un gigantesco mucchio di macerie; forse lo era stato, e solo più tardi era stato adibito a questa più solenne destinazione. Niente nella piazza si ergeva in altezza. Le pietre, che si potevano vedere, e le ossa, alle quali si pensava, tutto giaceva supino. Qui camminare in posizione eretta non era piacevole, non c’era niente di cui esser fieri, ci si sentiva soltanto ridicoli. Nelle altre parti del mondo i cimiteri sono allestiti in modo tale da suscitare nei viventi un senso di felicità. Sono pieni di vita, ricchi di piante e di uccelli, e il visitatore, unico essere umano tra tanti morti, proprio da questo si sente rallegrato e rinvigorito. La propria condizione gli appare invidiabile. Sulle pietre tombali legge i nomi delle persone: a ciascuno di costoro egli è sopravvissuto. Senza confessarselo, ha quasi la sensazione di averli vinti uno a uno in duello. È triste, sicuro, per tutta quella gente che non esiste più, ma proprio per questo si sente invincibile […]. Su questo deserto cimitero degli ebrei, al contrario, non cresce nulla. Esso è la verità stessa, un lunare paesaggio di morte. All’osservatore non importa affatto di sapere chi giace sottoterra, la cosa gli è cordialmente indifferente. Non si china e non cerca di scoprirlo. Qui sono tutti ammucchiati, come fossero macerie, e si vorrebbe scappar via in fretta, come sciacalli. È il deserto di uomini morti, sul quale non cresce più nulla, l’ultimo, estremo deserto”.
Le voci di Marrakech è un libro splendido, che si trasforma ininterrottamente pagina dopo pagina (romanzo, diario, nota occasionale, di nuovo romanzo, e poi saggio, appendice di una ben più corposa biografia…) svelandosi poco alla volta, nello stesso modo in cui, pagina dopo pagina, la città si svela agli occhi del grande scrittore bulgaro. Quest’opera, tanto breve (poco più di un centinaio di pagine) quanto intensa, ha la sincerità disarmante di una confessione, e racconta, come forse nessun’altra, l’uomo Canetti, il sussurrante pulsare del suo “cuore segreto”. Leggete Le voci di Marrakech, ve ne innamorerete.
Eccovi l’incipit. Buona lettura.
Tre volte venni a contatto con i cammelli e ogni volta finì in modo tragico. «Ti devo mostrare il mercato dei cammelli» mi disse un amico dopo il mio arrivo a Marrakech. «Si tiene il giovedì mattina davanti al muro di Bab-el-Khemis. È abbastanza lontano, dall’altra parte delle mura cittadine, è meglio che ti porti io in macchina». Venne il giovedì e ci andammo. Era già tardi; quando arrivammo nella grande piazza aperta, davanti alle mura della città, era ormai mezzogiorno. La piazza era quasi deserta. All’altra estremità, un duecento metri da noi, c’era un gruppo di persone, ma non vedemmo neanche un cammello. I piccoli animali attorno ai quali si affaccendava la gente erano asini, e di asini comunque la città era piena; portavano ogni sorta di carichi ed erano trattati così male che passava la voglia di starli a guardare. «Siamo arrivati troppo tardi» disse il mio amico. «Il mercato dei cammelli è finito». Guidò fino al centro della piazza per convincermi che non c’era più nulla da vedere. Ma prima che si fermasse vedemmo uno stuolo di uomini che schizzavano via, uno lontano dall’altro. In mezzo a loro c’era un cammello ritto su tre gambe, la quarta gli era stata legata in alto. Aveva una museruola rossa, una corda gli era stata passata per le froge e un uomo, che si teneva a una certa distanza, cercava di trascinarlo via. L’animale corse avanti per un tratto, si arrestò e poi, d’improvviso, balzò in alto sulle sue tre gambe. I suoi movimenti erano inattesi e poco rassicuranti. L’uomo che doveva portarlo via cedeva ogni volta; aveva paura di avvicinarsi troppo all’animale e non sapeva bene quale sarebbe stata la sua prossima mossa. Ma dopo ogni sorpresa ricominciava a tirare e riuscì, molto lentamente, a trascinare la bestia in una direzione precisa.