Recensione di “Al lupo, al lupo” di Karin Fossum
Un romanzo giallo che per architettura narrativa somiglia a una formula chimica e che nello sviluppo dei contenuti ha la profondità d’analisi di uno studio psicologico; lucido, preciso e conseguente nella costruzione dei caratteri (e nel progressivo deflagrare del caos emozionale da cui vengono travolti), ma soprattutto genialmente caratterizzato dall’assenza del suo elemento cardine, dell’evento imprescindibile che è la ragione stessa dell’esistere dell’intero genere letterario: il fatto di sangue, l’omicidio.
Di primo acchito, Al lupo, al lupo di Karin Fossum sembra quasi un lavoro sperimentale, un originale divertissement d’autore, invece è un thriller tesissimo, appassionante, aderente agli stili consolidati e ai meccanismi “classici” del mystery, e allo stesso tempo è un lavoro unico, splendido, un piccolo gioiello giocato sull’effetto spiazzante della sottrazione e sull’annichilimento provocato dalla paura.
Al centro della vicenda c’è un tranquillo paesino della Norvegia dove i giorni scorrono senza sussulti, senza sorprese; qui vive Johnny Beskow, un giovane consumato dalla rabbia e da un prepotente desiderio di vendetta. Emarginato, senza mezzi, costretto a vivere con la madre alcolizzata (che ritrova la forza di ricomporsi soltanto quando il bisogno di denaro la costringe a uscire di casa per “recuperare qualcosa”, magari prostituendosi), Johnny sfoga la propria frustrazione accanendosi su persone che non conosce e bersagliandole con una serie di macabri, spietati scherzi. E l’autodifesa del ragazzo di fronte all’indignazione, al sospetto e al terrore scatenati dalle sue azioni – “non è morto nessuno, in fondo; nessuno si è fatto veramente male” – è insieme il senso ultimo del romanzo (un giallo impeccabile senza cadavere) e il resoconto amaro della deriva esistenziale di una comunità, ostaggio di una quotidianità cruda, dominata dall’orrore, di una realtà d’incubo diventata d’improvviso la maschera demoniaca di se stessa. La scrittura della Fossum, nitida, possente, carica di tensione, procede per accumulo di contrasti: si sofferma a descrivere nel dettaglio scenari e ambienti (caldi, quieti, accoglienti) e subito dopo sprofonda nel mondo interiore dei suoi personaggi, sconvolto dall’odio cieco e immaturo di Johnny.
È nell’indimenticabile inizio del romanzo che tutto il resto della vicenda è contenuta: una coppia, una casa isolata, una bambina nata da pochi mesi che riposa tranquilla nel giardino, all’ombra di un albero. Il marito rincasa dal lavoro, prende un aperitivo con la moglie, poi i due finiscono a letto, dimentichi di tutto, colmi di una felicità quasi impossibile da esprimere: la bambina, pensa la madre quasi distrattamente, non corre nessun pericolo; da dov’è non la può vedere, ma se per qualsiasi motivo dovesse piangere la sentirebbe, e in un attimo le sarebbe accanto, premurosa, protettiva. È quasi sera quando i due escono per andare dalla loro piccola, ed è allora che tutto cambia; la culla, infatti, è piena di sangue. Quel che segue è un folle girotondo di emozioni fuori controllo; lo shock della madre, immobile dinanzi alla bambina inspiegabilmente immersa nel suo sangue, il disperato affannarsi del padre per cercare in qualche modo di salvarle la vita, la corsa in auto fino all’ospedale più vicino, l’attesa dei medici, e infine la scoperta: la piccola è illesa, il sangue che la ricopriva non era suo, si è trattato soltanto di uno scherzo… Uno scherzo, ma per la coppia è l’inizio della fine; la madre non riesce più a stare lontana dalla figlia, è preda di un’angoscia che non riesce a controllare e che il marito, tormentato da una rabbia impotente, non può in alcun modo alleviarle. La vita, quella vita che i due credevano di conoscere ed erano certi di amare, aveva mostrato il suo vero volto, quello di un dio capriccioso, dispotico, eccitato dalla sofferenza delle sue creature, dal sacrificio della loro felicità. Qualcuno ha spezzato la loro unione, irrimediabilmente… Lo sfaldarsi della famiglia si moltiplica come un’eco maligna lungo tutte le pagine del romanzo, contrappuntando le altre bravate di Johnny e le indagini della polizia, affidate al pacato e saggio ispettore Sejer (protagonista di una serie di romanzi di grande successo, tra cuiLa ragazza del lago e Cattive intenzioni), che questa volta si trova alle prese con qualcosa di più terribile della morte: l’angosciosa imprevedibilità del dolore. Al lupo, al lupo non è soltanto un giallo di straordinaria intensità, scritto meravigliosamente e denso di colpi di scena (alla fine anche l’assassinio farà capolino, ma non per diretta responsabilità di Johnny); è una riflessione, colma di dolente pietà, sulle debolezze degli uomini, vittime di se stessi, delle loro certezze così come delle loro paure.
Eccovi l’incipit. Buona lettura.
La bimba dormiva nella carrozzina sul retro della casa. Aveva otto mesi ed era avvolta in una coperta lavorata all’uncinetto, come la cuffietta che portava in testa, legata con un nastro sotto il mento. Era all’ombra di un acero, dietro cui si stagliava il bosco, simile a un muro nero. La madre era in cucina. Non poteva vedere la carrozzina dalla finestra, ma non era minimamente in pensiero per la piccola.