Recensione di “La promessa” di Friedrich Dürrenmatt
Considerato nella sua essenza, il meccanismo narrativo del giallo classico è piuttosto semplice; nell’ordine abbiamo un fatto delittuoso, un investigatore che cerca di ricostruire l’accaduto, una serie di indizi che vengono scoperti e ordinati in logica sequenza attraverso un meticoloso lavoro di indagine e una serie di rigorose deduzioni e infine il disvelamento della verità (con la conseguente, rassicurante, cattura del colpevole).
Genialità personale a parte, è esattamente questo, senza eccezioni, il percorso seguito dai vari Hercule Poirot, Sherlock Holmes, Miss Jane Marple, Auguste Dupin, insomma dai più celebri detective della storia della letteratura. Un percorso imboccato anche da un anonimo poliziotto svizzero, il commissario Matthäi, protagonista de La promessa, forse il miglior racconto del grande scrittore svizzero Friedrich Dürrenmatt.
Matthäi è un riflessivo, anziano sbirro cui non manca molto alla pensione, che un giorno si trova alle prese con un caso straziante; il brutale omicidio di una bambina. Di fronte ai genitori e al loro incommensurabile dolore, di fronte alla disperazione senza rimedio che soltanto ciò che è privo di senso e ragione (come l’assassinio di chi ha solo sette anni) scatena, il commissario promette che troverà il responsabile di quel crimine, che lo troverà a ogni costo. E comincia la sua indagine, aiutato da un paio di colleghi. In breve tempo viene fermata una persona, sulla quale gravano pesanti indizi. Per tutti, Matthäi escluso, si tratta dell’assassino, e quando l’uomo, chiuso in cella, si suicida, il gesto viene interpretato come definitiva ammissione di colpevolezza e il caso archiviato. Ma il commissario ha fatto una promessa, ha dato la sua parola a due persone per le quali non esiste più ragione di vita e il risultato dell’inchiesta non lo soddisfa. Non se la sente di presentarsi ai genitori della bambina uccisa e dire loro che giustizia è stata fatta. Così prosegue le indagini da solo, dapprima circondato dall’ironia dei colleghi, poi dalla loro aperta ostilità. E la sua cocciutaggine, poco alla volta, comincia a dare frutti. Matthäi segue Poirot, Holmes e Miss Marple; ordina gli indizi, deduce, si avvicina alla verità. Comprende il modus operandi dell’assassino, scopre come sceglie le sue vittime e prepara la sua trappola.
Ed è qui che la perfetta architettura del giallo va in frantumi. È qui che Dürrenmatt esce dagli schemi e distrugge il castello di carte della razionalità investigativa che infallibilmente conduce alla verità, o meglio, alla scoperta del colpevole. Perché Matthäi ha la verità, sa tutto quel che è necessario sapere, ma quel che la sua abilità gli ha permesso di comprendere non è sufficiente, non basta. Se Holmes, Poirot e Miss Marple vivono “prigionieri” dell’ingenuità del loro genio (che non può sbagliare perché, in qualche misteriosa maniera, sembra avere il potere di imbrigliare la realtà, il caso, e di trascinare gli eventi verso una conclusione considerata quasi come metafisicamente necessaria), Matthäi si trova a fare i conti proprio con il caso, con l’imponderabile, con l’imprevisto che di punto in bianco spariglia l’ordine della sua indagine e la fa precipitare nell’assurdo. Matthäi dunque ha ragione, ma il caso non viene risolto, perché il destino, la vita, qualsiasi cosa diversa dalla razionalità deduttiva del detective è intervenuta e ha cambiato tutto, alla radice. E così il commissario, improvvisamente, si trova a combattere proprio contro ciò che gli ha dato forza fino a quel momento: le conclusioni della sua indagine, che avrebbero potuto condurre alla cattura dell’omicida e scioglierlo dalla promessa. La trappola non scatta, non si chiude, e Matthäi, che ne ignora la ragione, si chiede cosa sia accaduto. Ripercorre tutta la sua investigazione alla ricerca di qualche falla, ma non ne trova (e non ne può trovare, perché non ce ne sono; lui ha la verità, come Poirot, Miss Marple, Sherlock Holmes), e allora si convince che sia solo questione di tempo. Che la partita tra lui e l’assassino si chiuderà, prima o poi. E l’attesa, giorno dopo giorno, si fa ossessione, e l’ossessione pazzia. La razionalità si trasforma nel suo opposto. La verità incontra il caso sulla sua strada e si perde; la verità non basta più a se stessa.
Amante sincero e appassionato del giallo (cui ha dato, a mio parere più di ogni altro autore, dignità letteraria) Dürrenmatt ne La promessa colpisce al cuore questo genere narrativo, ne mette a nudo la fragilità e ne mina definitivamente le fondamenta. Se Poirot incontrasse Matthäi comprenderebbe quanto poco valga, di fronte al cieco arbitrio degli eventi, l’illimitata fiducia che il raffinato investigatore belga ripone nelle sue eccellenti “cellule grigie”. Merita una citazione Einaudi, che ha pubblicato La promessa, insieme a un altro splendido racconto (La panne) e a un radiodramma, in un volume antologico il cui felicissimo titolo, che non a caso è il sottotitolo del racconto di Dürrenmatt, racchiude il senso ultimo del suo lavoro: Un requiem per il romanzo giallo.
Eccovi l’incipit del racconto. La traduzione, per Feltrinelli, è di Silvano Daniele. Buona lettura.
Nel marzo scorso dovevo tenere a Coira, presso la Società Andreas Dahinden, una conferenza sull’arte di scrivere romanzi polizieschi.