Recensione di “Il simpatizzante” di Viet Thanh Nguyen
Saigon, aprile 1975. La guerra del Vietnam è prossima al suo epilogo. Le forze comuniste guidate da Ho Chi Minh e la guerriglia Vietcong stanno per avere ragione dei loro avversari. L’esercito sudvienamita e le milizie loro alleate, qualla americana in testa, non possono fare altro che prendere atto della disastrosa situazione in cui si trovano; Saigon, ormai accerchiata, attende solo la capitolazione, mentre in ogni strada, in ogni casa, in ogni angolo ciascuno cerca una via d’uscita dall’incubo, un posto per sé e i propri cari su uno dei tanti mezzi pronti all’evacuazione.
Ma di posti disponibili, ormai, non ne sono rimasti più. Comincia così, con l’onnipresente sensazione di panico generata da una sconfitta imminente, l’intensissimo, Il simpatizzante, esordio letterario di Viet Thanh Nguyen meritatamente insignito nel 2016 del premio Pulitzer. Protagonista della storia, narrata come una confessione, è il Capitano, un ufficiale dell’intelligence sudvietnamita, un uomo imperscrutabile perché separato da se stesso, una persona in possesso non solo di due facce ma di due menti così diverse tra loro da essere opposte. Un uomo irraggiungibile, una spia perfetta al servizio della causa e dell’ideologia comunista.
Dalla voce di quest’uomo, dalle sue tormentate verità che inevitabilmente si mescolano alle menzogne, dalla dedizione assoluta a ciò cui ha votato l’intera sua vita e dagli sconvolgenti meccanismi del doppio gioco, in forza dei quali, affinché prevalga quel che noi consideriamo buono e giusto devono verificarsi le peggiori atrocità, compiersi le più crudeli ingiustizie, pagare prezzi altissimi vittime innocenti, passo dopo passo ecco delinearsi gli osceni contorni della “sporca guerra” e con essi sorgere, come pallidi fantasmi, i motivi, le ragioni, i perché del suo scatenarsi; ecco ergersi, colossali, le ombre delle lotte di potere, ecco lo strisciare insidioso, viscido, vigliacco eppure quasi invincibile della logica imperialista, che come un organismo intelligente, un parassita che ha bisogno del corpo sano di un ospite per vivere e moltiplicarsi, per prosperare, impara dai propri errori, evolve, adotta strategie sempre più complesse e vincenti, al punto da far sembrare dilettantesche tutte quelle nazioni (come la Francia in quel Vietnam immaturo che fu l’Indocina) che per soggiogarne un’altra hanno bisogno di invaderla, mentre gli Stati Uniti, sconfitti sul campo malgrado la superiorità militare, l’orrore chimico dell’agente Arancio e le fiamme devastatrici del napalm, hanno ottenuto la propria rivincita grazie alla macchina propagandistica di Hollywood e all’ineguagliabile potere che porta con sé, quello di rappresentare a proprio piacimento coloro che non sono in grado di rappresentarsi da sé. Vinto e vittorioso allo stesso tempo (e dunque in realtà né l’una cosa né l’altra), metà di niente – il Capitano è figlio illegittimo di una donna vietnamita e di un prete cattolico francese, condizione ibrida e stigmatizzata in prima istanza proprio dagli abitanti del suo stesso Paese, che vedono in lui il frutto dell’accoppiamento contro natura di un cane e di gatta – quest’uomo racconta la sua personale odissea intrecciandola con quella di tutti i suoi compagni; il Generale, suo superiore diretto, e la sua famiglia, il fraterno amico Bon, ferocemente anticomunista, e l’altro grande amico, presenza costante nella sua vita, il comunista Man, suo contatto tra le file dei nemici dichiarati e degli amici segreti, importante membro delle forze rivoluzionarie, l’uomo cui deve comunicare tutte le informazioni più importanti, che è vitale tenere al corrente di ogni mossa decisa dal Generale e che, dopo la fuga da Saigon e l’arrivo in un’America il cui recalcitrante benvenuto agli ex alleati ora divenuti un imbarazzante fardello ha l’acre odore dell’umiliazione, ha necessità assoluta di conoscere nel dettaglio quali piani di rivincita intendano attuare questi profughi privati del loro Paese e derubati della loro dignità di uomini e di soldati.
E mentre si gioca il crudele gioco delle spie, mentre in nome di un ideale, o meglio di contrapposte visioni del mondo, si tradiscono tutti i valori, si ingannano tutti gli uomini, si forgia la possibilità di amare nell’educazione all’odio, si compie il male in nome di un bene innominabile e spesso invisibile, le vite dei singoli intervengono come violente burrasche a sparigliare le carte, a confondere le menti, a ferire i cuori e lacerare le anime, finché quel che resta è ciò senza il quale non potremmo nemmeno dirci uomini, ciò che sopravvive alle rivoluzioni e alla loro necessità di scatenarsi, all’erompere degli squilibri, ai sogni di giustizia che la realtà immancabilmente spezza allo stesso modo in cui l’alba si sbarazza della notte: l’essere per qualcun altro, vivere per far sì che un altro viva. “No, non possiamo essere soli! Ci saranno altre migliaia di persone come noi che scruteranno l’oscurità, colte da pensieri scandalosi, speranze eccessive e sogni proibiti. Restiamo distesi, aspettando il momento buona e la causa giusta, che almeno per ora, è di là da venire”.
Splendido, tumultuoso intreccio politico e umano, Il simpatizzante è un’eccellente opera prima; vivificato da una scrittura potente, raffinata, profonda, coraggiosa, questo romanzo unisce l’ieri e l’oggi in una riflessione tanto scomoda e radicale quanto ineludibile; e se le esigenze narrative costringono l’autore a chiudere un po’ troppo in fretta il racconto , spiegando forse con eccessivo semplicismo perché ogni rivolgimento contiene in sé il germe della propria sconfitta, non si può negare che le domande che Viet Thanh Nguyen affida alla sua confessione-fiume siano ancora in attesa di una risposta degna di questo nome.
Eccovi l’incipit. La traduzione, per Neri Pozza, è di Luca Briasco. Buona lettura.
Sono una spia, un dormiente, un fantasma, un uomo con due facce. E un uomo con due menti diverse, anche se questo probabilmente non stupirà nessuno.