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Filosofia, psichiatria, storia

Recensione di “La cura Schopenhauer” di Irvin Yalom

Irvin Yalom, La cura Schopenhauer, Neri Pozza

Ci sono romanzi che conquistano più per l’intuizione, lo spunto, l’idea su cui si fondano che per il modo in cui riescono a dare sostanza narrativa a quell’iniziale scintilla. La cura Schopenhauer di Irvin Yalom, di professione psicoterapeuta (nonché professore emerito di Psichiatria all’Università di Stanford) e scrittore per diletto, è una di queste opere.


E lo è perché al di là dello stile della prosa, piacevole e venato di intelligente ironia, della cura e dell’attenzione con la quale l’autore costruisce i suoi personaggi e dell’assenza quasi totale di descrizioni d’ambiente (funzionale allo svilupparsi della storia, che si concentra esclusivamente sulle relazioni interpersonali e lascia sullo sfondo tutto il resto), a incuriosire davvero il lettore, a tentarlo, è la tesi che dà il titolo il libro: Arthur Schopenhauer, uno dei più grandi pensatori del XIX secolo, ignorato dai contemporanei per gran parte della vita, inselvatichito nel carattere e nei modi dalle frustrazioni subite e noto ai posteri quasi solo per il radicale pessimismo e la sprezzante sfiducia nell’uomo che permea l’intero corpus dei suoi scritti, può davvero rappresentare una cura per qualcuno? La soluzione ai suoi problemi? Una consolazione, un conforto, una via d’uscita?

Yalom, terapeuta esperto, con astuta perfidia racconta prendendo le mosse da questo suo provocatorio quesito e mette in scena il disagio esistenziale di un gruppo nel quale ognuno può facilmente riconoscere le proprie inquietudini (e forse anche imparare a ridimensionarle, guardandole per ciò che sono veramente). Uno dei protagonisti del romanzo, lo psichiatra Julius Hertzfeld, in un giorno come tanti, al termine di un controllo medico di routine si ritrova sprofondato nel peggiore degli incubi: ha un melanoma maligno e la prognosi non lascia spazio a equivoci, un anno di sostanziale buona salute, poi la fine. Inizialmente paralizzato dal terrore, il dottor Hertzfeld riesce poco alla volta a scendere a patti con la sua nuova condizione di malato terminale, ma non può impedirsi di guardare alla sua vita passata (privata, ma specialmente lavorativa) con occhi nuovi e una diversa consapevolezza. E quando, ripensando a tutti i suoi ex pazienti, arriva a chiedersi se sia stato davvero capace di aiutare qualcuno, se tutto il suo impegno e i suoi sforzi abbiano avuto un senso, decide che soltanto una persona può fornirgli le risposte che cerca: Philip Slate, il suo peggior fallimento terapeutico (tre anni di sedute che non hanno condotto a nulla), sessuomane compulsivo che, per sua stessa ammissione, se avesse impiegato in modo diverso il tempo speso a portarsi a letto donne avrebbe potuto prendere un dottorato in filosofia, cinese mandarino e astrofisica. Così lo contatta, prende appuntamento, scopre con grande sorpresa che anche Philip si sta dedicando alla cura degli altri (attraverso il counseling filosofico, anche se ancora gli manca l’abilitazione al libero esercizio della professione) e con ancor più grande stupore che a guarirlo dalla sua mania è stato un pensatore lontanissimo da psicologia e psichiatria, Arthur Schopenhauer.

Hertzfeld, tuttavia, si rende conto fin dal primo appuntamento che Philip ha pagato a carissimo prezzo la sua pretesa guarigione: ha infatti tagliato tutti i ponti con la vita, cancellato alla radice perfino la possibilità di un rapporto interpersonale (niente amicizie, e assolutamente nessun rapporto amoroso) e si è chiuso in un piccolo mondo costruito su misura e impermeabile a qualsiasi affetto, a qualsiasi coinvolgimento. Peccato che questa sua nuova condizione, che l’atarassia dietro la quale si nasconde e che lo fa sentire al sicuro rischi di rendere impossibile il suo lavoro di terapeuta (che si fonda proprio sulla capacità di provare empatia verso il paziente e la sua sofferenza); Hertzfeld lo spiega con chiarezza a Philip e gli propone di frequentare per sei mesi il gruppo di terapia che conduce. In cambio della sua disponibilità a “entrare in contatto con gli altri e condividerne esperienze, vissuti e disagi”, il dottor Hertzfeld accetta di fargli da supervisore per consentirgli di ottenere la sospirata abilitazione… Naturalmente, è nella descrizione delle dinamiche del gruppo e dei cambiamenti che lentamente investono ogni membro (compreso Hertzfeld) che il romanzo ha i suoi momenti migliori. Yalom illustra con illuminante semplicità il proprio approccio alla psicoterapia (quello umanistico del suo alter ego Hertzfeld), dimostra sensibilità e rispetto nell’indagare le paure del gruppo, offre al lettore numerosi spunti di riflessione (che in qualche caso sono veri e propri insegnamenti) e riesce a farlo nel modo migliore, evitando nel tono e nella spiegazione stucchevoli compiacimenti professorali, ma soprattutto non si sottrae al confronto con Schopenhauer. I capitoli dedicati agli intrecci tra Hertzfeld e i suoi pazienti, infatti, si alternano a quelli che trattano del grande filosofo; dagli anni della giovinezza, segnati dal rapporto ambivalente con i genitori, agli studi, dal formarsi del carattere e delle convinzioni fino ai rimedi adottati per arginare il dolore, per non lasciarsi inghiottire negli abissi di disperazione che la vita troppo spesso spalanca dinanzi agli uomini. Alla “felicità negativa” (intesa cioè come mera assenza di dolore) di Schopenhauer, l’autore oppone il coraggio di chi sceglie di rischiare, di mettersi in gioco, di scommettere, di vivere, qualsiasi cosa la vita abbia in serbo per noi, e lo fa con imparzialità e chiarezza; fin dal principio del romanzo la sua scelta di campo è netta (del resto, come già detto Yalom è Hertzfeld), tuttavia non influenza il lettore. Perché è a lui, e a lui soltanto, che tocca la responsabilità di accettare o respingere La cura Schopenhauer.

Eccovi l’incipit. Buona lettura.

Julius conosceva bene le prediche sulla vita e sulla morte, come le conosce ogni uomo. Concordava con gli stoici quando affermavano che «appena veniamo al mondo cominciamo a morire», e con Epicuro che argomentava dicendo: «Quando ci siamo noi non c’è la morte, quando c’è la morte, noi non siamo più», quindi perché temere la morte? In quanto medico e psichiatra aveva mormorato queste stesse frasi consolatorie all’orecchio dei moribondi.

2 commenti su “Filosofia, psichiatria, storia”

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